Giada seguì il suo nuovo amico per quelli che le sembravano chilometri. Questi riusciva a nuotare molto velocemente muovendo le sue pinne come ali, e l’effetto era come vedere una grande pennuto volare nelle acque blu. La ragazza comunque riusciva a stargli dietro, senza neanche sforzarsi di nuotare: era come se riuscisse a spostarsi con la sola forza del pensiero. Ad un tratto dallo sfondo uniforme emerse una vaga macchia bianca, e man mano che avanzavano diventava sempre più nitida e delineata. Guardando verso il basso, la giovane vide che sul fondale vi era un villaggio fatto di case squadrare di fango e sabbia, e nei passaggi tra di esse sciamavano tanti tesserini simili a Xikton, apparentemente affaccendati nelle stesse attività delle persone, nelle città sulla terraferma. Davanti a loro, ora, vi era un magnifico palazzo, gigantesco e dall’architettura balzana ma straordinaria, con torri coniche altissime che spuntavano verso l’alto un po’ da ogni parte, e piccole colonne orizzontali che uscivano dalla facciata del corpo principale. Nuotarono fino all’entrata, una sontuosa e gigantesca porta squadrata senza battenti. Da lì venne condotta al cospetto del re, nella sala del trono, un salone quadrato e dalla volta altissima. Sul trono, in fondo alla sala, il re era seduto con una grossa conchiglia a mo di corona in testa,e quando vide Giada si alzò e andò a baciarle la mano. Le disse che sarebbe potuta rimanere con loro quanto desiderava, anche tutta la vita se avesse voluto, che lei era la prima umana che avessero mai avuto nella terra di Marfant, e che per questo doveva essere trattata con tutti gli onori, anche più dello stesso re. Dopo aver ringraziato il re e la corte presente nella sala del trono, venne condotta nelle sue stanze del palazzo.
Rimase con loro ventisette giorni. Ogni giorno organizzavano banchetti a base dell’unico cibo che mangiava il popolo del lago, le alghe verdi sminuzzate, e che Giada trovava veramente gustose. Le feste in suo onore poi erano davvero sfarzose, l’enorme sala da ballo era sempre piena di nobili Marfantiani che danzavano per ore, al ritmo della soave musica prodotta dalla grande orchestra. La ragazza amava quel clima, lo amava veramente, e amava anche danzare con il suo amico Xikton, che in quei giorni l’aveva sempre accompagnata. Quasi non ricordava più la sua vita sulla terraferma, i ricordi del mondo fuori dall’acqua svanivano giorno dopo giorno, ma non le importava nulla, lei ormai voleva solo rimanere in quel posto per sempre. Lassù la aspettava un mondo apatico e marcio, pieno di gente malvagia in ogni dove, là sotto invece non era così, non c’era nessuno che le volesse far del male, nessuno era apatico. Purtroppo in questo si sbagliava, se ne sarebbe accorta solo dopo; però passò ventisette giorni piacevolissimi, forse i migliori della sua vita, e tra danze e cene il tempo volò.
Nel ventisettesimo giorno, qualcosa accadde. Dopo essersi alzata alla mattina, Giada notò una cosa strana: diversamente dalla solita calma che regnava solitamente, nel palazzo quel giorno c’era una grande agitazione, un atmosfera concitata. Un po’ allarmata, si vestì e si recò nella sala del trono. Al suo ingresso, il gran consiglio del re ammutolì, e tutti la guardarono. Il re, con una faccia sconsolata, le riferì che era scoppiata una rivolta, che la popolazione, stanca di fare la fame per nutrire i ricchi banchetti dei nobili come avveniva da quasi un mese, si stava ribellando. Per sedare la rivolta avevano solo due possibilità: o smettevano le feste o mandavano via la ragazza. Giada però aveva appreso che nel popolo del lago la tradizione non si poteva violare, era sacra, e la tradizione appunto prevedeva di organizzare cene e ricevimenti ogni volta che un ospite raggiungeva il palazzo. Quindi l’unica cosa che potevano fare era proprio cacciarla via. Ma lei non voleva, non voleva proprio, si sarebbe opposta con tutta le sue forze. Espresse questa opinione al re, in tono supplicante; ma il re, sempre più sconsolato, le comunicò che non poteva restare. Doveva andarsene, non gli importava dove, ma doveva andare via dal regno. Giada guardò allora Xikton, ma questi, infelice, scosse la testa. Giada venne accompagnata all’esterno del palazzo dalle guardie, che le intimarono di abbandonare per sempre Marfant. Lei urlò, con le lacrime agli occhi, che non avrebbe mai lasciato quel posto, se non la volevano sarebbe rimasta la fuori per sempre, ma mentre diceva questo sentì un’accelerazione. Stava venendo strattonata per un braccio, ma non vedeva chi la stesse tirando, era come se ci fosse una strana e misteriosa forza che la attraeva verso l’alto, verso la superficie, verso quel mondo che non voleva più vedere. Tentò di opporsi con tutte le forze, ma non ci riuscì, veniva portata lentamente ma inesorabilmente in su. Infine riemerse dall’acqua. Là c’erano molte luci che si muovevano e lampeggiavano, persone che parlavano e urlavano. Non riusciva a capire nulla, era confusa e stordita, sentiva solo un freddo intensissimo, non riusciva a sopportarlo. Poi si accorse che stava venendo trasportata, quindi il freddo si fece meno intenso. Disperata poiché non riusciva a capire cosa succedeva, Giada perse i sensi.
Si risvegliò all’ospedale. Non sapeva perché era lì, però vedeva davanti a se il padre, la faccia china, evidentemente molto triste. Cerco di parlargli, ma aveva le corde vocali come impastate, tuttavia il padre la sentì e si riscosse dallo stato di tristezza. Corse ad abbracciarla, forse con un po’ troppa foga. Anche Giada era dopotutto felice di rivederlo, non capiva ancora perché avesse avuto, nei giorni passati, il desiderio di non rivedere mai più nessun essere umano e di rimanere sempre nel palazzo di Marfant, mentre ora non provava che un attaccamento al “mondo di sopra”. Chiese al padre cosa era successo. Le raccontò tutto per filo e per segno: era caduta nel lago di Lecco ed era rimasta la sotto per quaranta minuti. La temperatura era quasi a zero, e grazie a ciò anche se non aveva respirato per tanto tempo non era morta, né aveva riportato danni permanenti. Per un colpo di fortuna, il nucleo subacqueo della polizia l’aveva trovata e ripescata per tempo, qualche altro minuto in più e avrebbe sicuramente riportato lesioni gravissime; ed oramai erano passate circa due ore dal salvataggio Allora Giada gli raccontò tutto quello che aveva vissuto, il mese che le era parso passare, il popolo del lago, il regno di Marfant, il palazzo, tutto ciò che le era capitato, e il padre sembrò annuire, con un sorriso strano, che lei non capì. Dopo un altra oretta, anche la sua amica, quella che compiva 18 anni, arrivò all’ospedale seguita da tutti i suoi amici invitati alla festa. Erano venuti appena avevano saputo la notizia, e ora che sapevano che non era successo nulla erano molto sollevati. L’amica fece alcune chiamate, e in qualche minuto vennero portate alcune cibarie e uno stereo: la festa di compleanno, con il permesso dei medici, sarebbe continuata in quella stanza dell’ospedale di Lecco.
Qualche giorno dopo la ragazza dopo scoprì che anche suo padre aveva avuto delle allucinazioni, anche se in forma minore, e che i NAS avevano scoperto che il pomodoro con cui aveva preparato il sugo con cui aveva condito la pasta era scaduto, e vi avevano proliferato dei funghi tossici e vagamente allucinogeni. Il negoziante, che aveva contraffatto l’etichetta a quella e ad altre confezioni, nei mesi successi venne processato e condannato per sofisticazione di alimenti e lesioni intenzionali; ma Giada non si sentiva danneggiata, anzi, l’esperienza del lago le era piaciuta moltissimo, e nonostante questo, paradossalmente, le aveva rafforzato l’amore per la terraferma. Non parlò mai con nessuno, a parte il padre, di questa avventura, ma non ha ancora dimenticato quei magnifici ventisette giorni nella terra del popolo del lago.
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