martedì 30 giugno 2015

I giudizi negativi e la maturità

So che ve l'ho già chiesto altre volte, ma devo tornare a farvi questa proposta. Leggete uno dei miei racconti più vecchi (per esempio Decadenza, uno dei meno peggio) e poi di seguito uno di quelli più nuovi (per esempio Enigmi nell'Oscurità, uno tra quelli che reputo migliori della mia intera produzione). Fatto? Bene, io a questo punto non sono sicuro del fatto si vi siano piaciuti o meno, ma una cosa la so con certezza: che il secondo vi è parso migliore del primo. Non è una questione di gusti ma di oggettività: quando il secondo ha almeno frasi leggibili e più in generale una tecnica scrittoria decente, il primo è invece pieno di spigoli, di frasi brutte da leggere e arzigogolate, di parti raccontate e di ripetizioni (nonché con un'introduzione che mi dà i brividi per la sua ingenuità). Del resto, è abbastanza ovvio che sia così: nei quattro anni e mezzo passati tra i due racconti, ho imparato parecchio, a proposito di come si scrive.

Raggiungere questo "livello di decenza" non è stato facile: ho letto testi di scrittura creativa, poi ho messo in pratica le sue lezioni e continuato a far esperienza scrivendo. C'è qualcosa però che mi ha fatto crescere molto di più di tutto questo messo insieme: sto parlando, strano ma vero, dei pareri negativi. Quando ho cominciato, giusto per fare un esempio, avevo il gigantesco difetto di produrre molti racconti in un tono del tutto didascalico, praticamente tutti raccontati senza nulla di mostrato, il che ovviamente è un errore da principianti. Purtroppo, i pochi giudizi che ricevevo all'epoca provenivano da persone amiche ed erano del tutto positivi: ciò mi faceva piacere, ma non mi ha permesso di capire che stavo sbagliando. Di fatto, ho cominciato a crescere proprio nel momento in cui sono arrivati i primi pareri fortemente negativi, a volte anche brutali: questi spesso mi hanno fatto stare male, ma non mi sono solo buttato giù, ho anche cercato di capire il perché di quelle critiche, e lentamente ho realizzato che erano fondate. Le stroncature ai miei racconti, specie se ben argomentate, mi hanno permesso di comprendere dove sbagliavo, e da quegli errori è nata tutta la mia maturazione successiva (ancora in corso, peraltro). Ecco perché oggi penso che un parere negativo (o almeno critico) valga più  di uno positivo: quest'ultimo può far contenti, ma il primo è molto più utile per capire il proprio livello e poter crescere e migliorare in ciò che si fa.

Questo significa che se ad oggi ricevessi una stroncatura, sarei contento? No, non è così, sarei ancora ferito come chiunque, del resto è una reazione pienamente umana. Ho tuttavia (o almeno spero di avere) la maturità necessaria per accettare che non si parli bene di me, e dai consigli altrui cercare di aggiustare le mie mancanze. Beninteso, non tutti pareri negativi sono per forza utilizzabili, dopotutto esistono anche stroncature dovute semplicemente ai gusti personali; anche in quei casi però sono consapevole che il comportamento più opportuno sia non arrabbiarmi ma accettare serenamente la critica, è l'unico atteggiamento adulto. Perché questa precisazione? Semplice: questa intera riflessione nasce da alcune recenti reazioni discutibili alle recensioni dei miei due siti musicali, Heavy Metal Heaven e Alternative Rock Heaven. E' successo infatti che alcuni musicisti contestassero i giudizi miei o delle mie collaboratrici, accusandoci a volte in maniera velata, a volte esplicitamente, di scarsa professionalità e di incapacità; ciò è avvenuto in risposta a recensioni con giudizi critici, anche se spesso non negativi.

Come saprete, a me i troll che invadono il mio spazio web con insulti ispirano divertimento; nemmeno in questo caso la reazione è stata quella di fastidio, anche perché il fatto che dei musicisti contestino un voto li fa sembrare "rosiconi" agli occhi di tutti quelli che assistono alla discussione, di sicuro sono loro gli unici a perderci. Tuttavia, mi fa un po' riflettere che ci siano ancora artisti così pieni di sé da non accettare le critiche, rifiutando in questo modo anche una possibilità di migliorarsi. Se l'avessi fatto anche io, a quest'ora i miei racconti sarebbero ancora didascalici e brutti come i primi, invece di svilupparsi. A dispetto dell'utilità o meno dei giudizi negativi, però, il loro atteggiamento è ridicolo per un motivo ancor più fondamentale. C'è difatti un solo modo per avere la garanzia di non ricevere mai critiche al proprio lavoro: non fare niente. Se invece si decide di dare la luce a un qualsiasi prodotto, per quanto valido e fantastico ci sarà sempre almeno qualcuno a cui non piacerà: il mondo è grande, ed esiste una varietà incredibile di gusti. Per questo, l'atteggiamento di chi contesta le critiche non è quello di un artista maturo: assomiglia a mio avviso di più a quello di un bambino che punta i piedi se i genitori gli dicono di no, o che manda al diavolo il maestro che gli ha dato un brutto voto senza capire che è colpa sua, che non ha studiato. Ovvio, poi ognuno è libero di attuare il comportamento che vuole, questo è un paese (più o meno) libero: sappiate solo che se andate su un sito a dire quanto sia stupido quello che vi ha criticato non comprendendo il vostro genio, non solo non siete artisti maturi, ma la figura che ci fate è ben misera!

E voi? Qual è il vostro atteggiamento verso i giudizi negativi?

martedì 23 giugno 2015

"Jurassic World" di Colin Trevorrow

Sin da quando è uscito (e forse anche da prima), circa due settimane fa, Jurassic World di Colin Trevorrow è diventato il caso del momento. Non poteva essere altrimenti, del resto: c'era curiosità per un nuovo sequel della saga cominciata ventidue anni fa e che era "in pausa" da quasi quindici anni, dall'uscita del bistrattato Jurassic Park III. Da persona cresciuta negli anni novanta, e che ovviamente è stato colpito da bambino dal fascino dell'originale, non potevo resistere all'attrazione del cinema: la scorsa settimana sono infine riuscito a vederlo. Seppur io sia consapevole che un'altra recensione di questo film non serva poi a molto, visto che c'è chi l'ha fatto molto prima e molto meglio di me, volevo comunque dire la mia sul film: ecco il mio parere.

La trama del film, molto in breve (spoiler da qui); una ventina di anni dopo gli incidenti del Jurassic Park, su Isla Nublar è stato realizzato finalmente un parco di dinosauri, che ogni anno attrae migliaia di visitatori. Tuttavia i costi stanno lievitando sempre più, e il pubblico non cresce più come una volta: per questo, i vertici del parco hanno deciso di creare una nuova attrazione per rinverdire l'interesse della gente, il primo dinosauro geneticamente modificato, l'Indominous Rex. Quest'ultimo si rivelerà però presto troppo intelligente, e con una furbizia riuscirà a fuggire dal suo recinto. Sin da subito, con sadismo comincerà a uccidere e a far scappare dai propri recinti gli altri dinosauri, tra cui gli pterodattili che faranno strage dei visitatori. Solo Owen Gready riuscirà infine a fermare il bestione: con i suoi Velociraptor ammaestrati, aiutati dal Tirannosauro (lo stesso del primo Jurassic Park!) e dal Mosasauro, riuscirà infine a far fuori il mostro, che nel frattempo ha distrutto completamente il Jurassic World. (fine spoiler).

La cosa che salta più all'occhio di Jurassic World è che si conta molto, ancora una volta, sul fascino dei dinosauri, il che tutto sommato non ha smesso di funzionare: i dinosauri sono sempre "wow", come sottolinea anche una battuta del film. Dall'altra parte però qualcosa è meno efficace: nella trama infatti c'è qualche buco e alcuni particolari piuttosto improbabili, che per quanto veniali impediscono di godersi il film appieno. Poco male, comunque, la resa visiva è splendida, nonostante i dinosauri fatti al computer siano paradossalmente inferiori a quelli del novantatré, e ci sono alcune trovare davvero eccitanti: senza spoilerare troppo, ho trovato splendido il ruolo dei Velociraptor in questo film, e anche il combattimento finale, per quanto esagerato e pacchiano, è comunque splendido. Anche gli "attori umani" funzionano tutto sommato bene: per esempio il protagonista, per quanto sia il solito duro da film americano stereotipatissimo, alla fine ispira simpatia (almeno a me). Lodevole sono infine tutte le citazioni che riportano al Jurassic Park originale, che in fondo sembrano essere anche la chiave di lettura del film: in fondo, l'intento del film di Trevorrow sembra essere proprio quello nostalgico.

Seppur Jurassic World non sia certo un capolavoro né tanto meno un film di livello pari al primo del franchise, è comunque un blockbuster estivo molto divertente, specie se si cerca un intrattenimento liscio, che non necessiti di dover accendere troppo il cervello. Certo, se vi piacciono film più impegnati non farà per voi, ma se come me siete semplicemente nostalgici della vostra infanzia coi dinosauri, correte a vederlo!

martedì 16 giugno 2015

"Il labirinto" di James Dashner

Tra la preospedalizzazione, l'operazione e i postumi post-operatori (che sono stati peraltro piuttosto pesanti, essendo la mia prima operazione non me l'aspettavo così) nelle ultime settimane ho avuto parecchio tempo morto in cui praticamente non ho fatto altro che leggere, riviste e libri. Tra questi, uno di quelli che è riuscito a colpirmi maggiormente è stato "Il Labirinto" di James Dashner, primo libro della serie "The Maze Runner", romanzo della branca fantascientifica del genere "young adult" piuttosto famoso, da cui è stato tratto anche un film di recente. La lettura è stata rapidissima (pochi giorni) ma non del tutto soddisfacente: vi spiegherò perché.

La trama in breve (spoiler da qui): senza alcuna memoria del passato, il giovane Thomas si risveglia nella Radura, un luogo delimitato da pareti, che presto apprende essere il punto centrale di un intricato labirinto, in cui lui e gli abitanti locali, i Radurai, si ritrovano intrappolati. Il ragazzo si darà subito da fare per imparare la routine di questo luogo, ma l'arrivo inaspettato di una ragazza (i Radurai erano tutti maschi prima), Teresa, è l'inizio dell'apocalisse: la luce del sole si vela e le porte della Radura cominciano a non chiudersi più, non proteggendo più i suoi abitanti dai terribili Dolenti, esseri metà bestie metà robot che infestano il labirinto. Tra codici e misteri, Thomas e Teresa aiuteranno i Radurai in maniera fondamentale, permettendo loro di risolvere infine l'enigma che si cela dietro alla struttura che li circonda, ma una volta usciti si ritroveranno in un mondo futuristico distopico, dove regna una malattia atroce chiamata Eruzione e dove degli scienziati hanno creato il labirinto per selezionare i giovani più promettenti. Il finale è aperto: restano tanti interrogativi, che verranno probabilmente spiegati nei successivi libri della saga (fine spoiler).

Seppur l'ambientazione futuristico-distopica sia ormai diventato un cliché che nello young adult, quella de Il labirinto non è tutto sommato male, anzi: il fatto che questi enigmi si presentino rapidamente uno dietro l'altro non fa altro che incalzare ancor di più alla lettura, oltre a renderla più affascinante. Purtroppo il difetto di Dashner è un altro, lo  stile molto ossessivo, quasi angosciato. Non so se sia la traduzione oppure la stessa cosa succeda anche nell'originale, ma ogni poche righe deve descrivere sempre le sensazioni e l'umore del protagonista, il che viene presto a noia oltre a far venire in antipatia lo stesso personaggio. Più in generale, tutto lo stile l'ho trovato un po' macchinoso e ansioso, l'autore sembra quasi angosciato mentre scrive, anche se delle trovate vincenti ci sono: su tutti i cliffhanger che praticamente connettono tutti i capitoli, imperiosi e che spingono il lettore a proseguire ancora nella lettura. E' anche per questo che il libro si legge molto rapidamente nonostante il suo stile: l'ho davvero divorato!

Il labirinto insomma non è nemmeno lontanamente un capolavoro, ma comunque è una lettura piacevole a tempo perso, che sa essere discretamente appassionante nonostante i suoi difetti. Se non disprezzate il genere young adult vi piacerà, ma non vi aspettate chissà quale capolavoro!

E voi? Avete letto il romanzo di James Dashner?

martedì 9 giugno 2015

Finalmente...

Quella passata è stata per me una settimana strapiena: non solo il ponte del due giugno e il weekend lavorativo, ma anche, proprio stamattina, un'operazione chirurgica con il conseguente ricovero (ventiquattr'ore che poi sono diventate quarantotto, lunga storia). Tutte cose che hanno fagocitato gran parte del mio tempo. Questa settimana non sono riuscito però a scrivere uno straccio di post, anche se stavolta non sono irritato come altre volte che mi è capitato. Sono diversi mesi infatti che sto lavorando a Hand of Doom come mai prima d'ora, e i risultati cominciano a vedersi: più visite, più commenti, più coinvolgimento. Finalmente sembra che qualcosa si stia muovendo, e se ancora è poco, è comunque già un inizio. La cosa mi rende molto contento: Hand of Doom sta infatti diventando una valvola di sfogo e una delle poche cose positive in una vita come la mia ultimamente, così piena di stress e di fastidi. Era ora!

Chiedo comunque scusa a voi, miei pochi ma preziosi lettori, se non ho potuto scrivere di meglio. Sicuramente tornerò la settimana prossima con qualcosa di meglio!

giovedì 4 giugno 2015

"8 idee sulla depressione": un parere esperto

Anche se non gli avrei dato un'euro, il mio post della scorsa settimana, "8 idee sulla depressione", ha avuto un successo inaspettato. E' arrivato a molti commentatori e amici, tra i quali anche Gabriele di Maio, un amico laureato in psicologia. Dall'alto della sua competenza, Gabriele ha deciso di scrivere una sorta di risposta al mio post: lascio perciò spazio ora a quello che di fatto è il primo guest-post di Hand of Doom. Godetevelo!
Mattia


Perché si tende a pensare che chi è depresso è sempre infelice? E’ questa una delle prime domande, nonché associazioni, a cui si è soggetti quando si parla di Depressione.
Depressione e infelicità; infelicità come segno e sintomo di depressione, e viceversa. Perché queste associazioni sembrano così inossidabili?
Perché si è portati a identificare la persona con la patologia: la persona afflitta da depressione, quindi, diventa “il depresso”, perdendo la sua individualità agli occhi degli altri, quindi anche agli occhi di se stesso. Come si fa a non alimentare una sempre più profonda infelicità se allo specchio si vede una patologia e non più una persona?
Guardarsi attraverso lo specchio e non vedere null’altro che un insieme di sintomi può portare, il più delle volte, a volersi coprire il volto e barricarsi in se stessi, per scheggiarsi il meno possibile con quei pezzi di vetro sempre più odiati. Ecco uno dei motivi per cui una condizione di depressione porta la persona a chiudere le porte al mondo.
Chiudersi, perciò, non è una inevitabile conseguenza della depressione, anzi, tante, tantissime persone “depresse” in realtà cercano contatti con  gli altri. Ne è prova il fatto che sono spesso deluse dalle amicizie e dai rapporti in genere: ciò accade proprio perché sono alla ricerca di amicizie e relazioni sincere, e non possono fare a meno, quindi, di accusare malumore e delusione quando queste vanno a monte.
Malumori, tristezza, tono dell’umore basso…stati d’animo.
Ma è sempre un bene considerare la depressione uno stato d’animo e non una “malattia”?
Può sembrare una cosa positiva quella di “depatologizzare” la depressione per non vederla come una malattia. Parlare di malattia e patologia porta con sé la stigma sociale: la persona afflitta da depressione, se identificata come “malata”, si macchia di patologia e verrà vista dagli altri, e vedrà se stessa, come irrimediabilmente tale. In realtà, però, vi è un’altra faccia della medaglia che spesso resta nascosta, ed è quella del pericolo che comporta il fatto di depatologizzare ogni cosa, appiccicando ad ogni condizione una etichetta di relativismo: non esistono patologie, non c’è malattia, la persona non è segnata, non è marchiata, è “come noi altri”.
Ma se non c’è patologia..non c’è neanche una cura!
Forse un intervento di ristrutturazione di significato andrebbe fatto sul concetto in sé di condizione patologica: bisognerebbe comprendere che non vi è assolutamente nulla di male, né di sbagliato, nell’essere “malati” di qualcosa. Nessuno colpevolizza un altro per un raffreddore, o per una discopatia. Spogliamo dalla colpa anche le condizioni che riguardano la psiche !
Il concetto di malattia ci porta, immediatamente, a fare mentalmente riferimento a sintomi fisici ed organici. In effetti, ciò che molte persone non sanno, è che la depressione, come altre condizioni (ad esempio, le fobie) è una reazione “positiva” della mente e del corpo. La risposta psichica – e fisica – è il segno che il nostro organismo, come macchina complessa e perfetta, reagisce agli stimoli ambientali e personali, esterni ed interni. Ed ecco che la depressione può essere vista come “un meccanismo di sopravvivenza”, un messaggio di speranza che il nostro organismo ci invia.
Tra l’altro, non bisogna dimenticare i correlati fisici, e neurobiologici, della depressione: molte condizioni che vengono considerate solo ed esclusivamente “mentali”, o meglio, “psicologiche”, hanno in realtà delle corrispondenze anche nel corpo.
Il lato “fisico” non vuole essere una giustificazione ed una autorizzazione ad esistere delle condizioni psichiche, anzi, sia ben inteso che uno stato mentale ha piena ragione di esserci anche se non ha alcuna corrispondenza nel corpo; il fulcro del discorso risiede nella necessità di vedere l’essere umano nella sua globalità: non solo mente, non solo corpo, ma un sistema dinamico, composto di parti tra loro comunicanti e che, continuamente nel corso della vita, si influenzano. Ed è qui che può trovare un posto –ed un senso- anche la terapia farmacologica che, in parallelo ad una psicoterapia e quindi ad un percorso psicologico, può massimizzare i suoi effetti.

Il blog del dottor Gabriele di Maio

martedì 2 giugno 2015

Effetto Dunning-Kruger, scrittura e blogging

Effetto Dunning–Kruger: una distorsione cognitiva a causa della quale individui inesperti tendono a sopravvalutarsi, giudicando, a torto, le proprie abilità come superiori alla media. Questa almeno è la definizione che dà Wikipedia, con termini neutri, di ciò che Bertrand Russell ha riassunto come "La causa fondamentale dei problemi è che nel mondo moderno gli stupidi sono sicuri di sé mentre gli intelligenti sono pieni di dubbi.". Seppur sagace e divertente, la frase del grande matematico è forse un po' riduttiva: anche un "intelligente" può confidare troppo in sé stesso a torto, non avendo la necessaria esperienza: il problema sarebbe insomma che sono gli incompetenti a essere troppo sicuri.

Relativamente alla mia scrittura, è questo un fatto che ho potuto apprezzare in prima persona. Seppur siano passati diversi anni dai miei primissimi esperimenti di racconti, mi ricordo abbastanza bene ciò che provavo all'epoca: pensavo di avere ottime idee e di scrivere bei racconti, di essere insomma un bravo scrittore che avrebbe potuto vivere della propria scrittura senza troppe difficoltà. Non avevo i mezzi per capire che erano tutte pie illusioni, ma non perché fossi stupido (spero): semplicemente mi mancava l'esperienza anche solo per poter capire cosa fosse scrivere decentemente. Rileggendo adesso quei racconti, quasi provo ribrezzo:didascalici, senza una trama degna di questo nome, piene di brutture, di ripetizioni, di frasi arzigogolate e sgradevoli da leggere (e sfido chiunque ad andare indietro nei post di questo blog, leggerli e poi a dire il contrario). Questo però posso dirlo solo ora, che sono diventato uno scrittore decente; o almeno credo di esserlo, se non altro per tutti i dubbi che ho in proposito! A parte gli scherzi, però, è pur vero che mi rendo conto di essere molto cresciuto tecnicamente, e seppur non sappia quale sia il mio livello attuale, sono consapevole di scrivere molto meglio di quando ho iniziato, grazie alle critiche (specialmente negative) e a ciò che ho fatto per maturare e migliorarmi negli ultimi anni.

Allo stesso modo, in ogni caso, questo effetto è visibile anche nell'evoluzione del mio rapporto con il blogging: se quando, nel 2009, ho aperto Hand of Doom (allora si chiamava ancora semplicemente "Blog di un Solitario") pensavo infatti che in poco tempo sarebbe diventato se non famoso almeno noto nella blogosfera italica, che avrei avuto commenti ai miei racconti e ai post che scrivevo di getto, senza pensarci troppo. Ciò non è accaduto, ancor oggi il blog stenta un po' (anche se è cresciuto parecchio nell'ultimo anno, in cui mi sono impegnato per la prima volta sul serio), e leggere blog che invece di successo ne hanno in quantità molto maggiore mi ha fatto capire che non basta scrivere cose un minimo interessanti (peraltro all'inizio io nemmeno questo riuscivo a fare), ma bisogna anche distinguersi e soprattutto sapersi fare pubblicità, se si vuole raggiungere tutto il pubblico che potrebbe essere interessato ai contenuti del proprio blog.

E' probabilmente proprio per questo che se una volta pubblicavo tutto quello che mi passava per la testa, oggi con Hand of Doom ci vado coi piedi di piombo. Un esempio? Mi sono chiesto per giorni se il post di una settimana fa sulla depressione fosse adatto per questo blog o se fosse troppo fuori tema, se insomma sarebbe piaciuto ai fan: la risposta è stata molto positiva, ma sicuramente sono stato molto indeciso se postarlo o meno. Questo succede per tutti i post di questo blog, mentre un po' meglio mi va su Heavy Metal Heaven: essendo un sito metal, mi sento relativamente sicuro a postare recensioni metal, sicuramente il pubblico che ho costruito nel tempo non si aspetta altro che quello. Tuttavia, anche lì la questione non è facile: sono sempre indeciso sul voto finale da dare a un album, e ciò è diventato col tempo sempre più accentuato, visto che la conoscenza più approfondita di questo genere musicale mi ha creato ancora una volta nient'altro che insicurezza. Sono sicuro che i giudizi finali siano più o meno giusti, ma in fase di scrittura è sempre una certa indecisione a governarmi.

Insomma, l'effetto Dunning-Kruger è un'arma terribilmente a doppio taglio: o non si è capaci, ma almeno si è tranquilli, o lo si è ma non si è mai sicuri di esserlo davvero. Forse aveva proprio ragione Russell, che il problema è proprio la sua esistenza, ma non solo per il mondo: anche per il singolo, che vive la maturazione come un'evoluzione verso il dubbio. Triste, ma cosa ci si può fare?