venerdì 25 febbraio 2011

Un attimo di sosta

Dopo i mesi precedenti, in cui ho creato racconti come mai, nemmeno all'inizio ho fatto, ora sono costretto a prendermi una pausa, o meglio: continuo a scrivere come prima, e in effetti ho anche un racconto pronto, ma per un po' non li pubblico qui, per motivi che, se riusciranno i miei "movimenti", chiarirò in seguito (e se non riusciranno, allora li pubblicherò qui). Comunque, non durerà molto: il prossimo mese conto di tornare a pubblicare come prima.

domenica 20 febbraio 2011

A proposito dell'Italia

Mi accorgo, ultimamente, che sempre più visitatori stranieri visitano il mio blog, ed io spero che siano in grado di leggere l'italiano; perciò, vorrei indirizzare loro un post generalista, che spazia tra vari argomenti, anche se comunque è una riflessione generale fruibile anche dai miei connazionali.

Ho letto molte opinioni, in questi giorni, opinioni sul 17 marzo e sull'unità d'Italia in generale, molte delle quali sono apparse critiche, come se il nostro paese fosse qualcosa da nulla. Sinceramente, trovo queste posizioni comprensibili, per quanto non le condivida, visto che, stranamente, nel nostro paese non abbiamo alcun amore, apparentemente, per la patria. Sembra quasi che molti non si considerino parte dell'Italia, come se nonostante lingua e cultura siano praticamente comuni, dal nord al sud, e in nome di pochissime differenze, per lo più dialettali, ignorino palesemente tutte le uguaglianze che accomunano tutti gli italiani. Mi infastidisce in particolar modo l'ignoranza della storia, che ci ha visti sempre divisi tra stranieri conquistatori ma sempre ardenti per la riunificazione, come se l'amor patrio che avevano in molti sia caduto, insieme a tanti altri valori importanti (parlo di rispetto, di valori democratici, non di altri valori più tradizionali).

Detto questo, anche se ultimamente non ho scritto una parola sulla situazione politica, sono comunque, chiaramente, contrario a ciò che succede ai piani alti, con questo presidente del consiglio e i suoi deliri quotidiani contro tutti. Probabilmente i miei lettori esteri, come penso tantissimi non italiani, si chiederanno: in maghreb ci son tanti regimi corrotti che stanno crollando, quindi perché il nostro resiste, nonostante dovrebbe essere molto più democratico? La mia risposta è una: perché alla fine gli italiani sono refrattari all'unione, e quindi anche se il paese va in malora, loro non protestano, ne si batteranno per cambiarlo, nonostante vi siano tante altre persone che invece sono sane, democraticamente parlando, e si battano in un modo o nell'altro contro questa situazione.

A me dispiace questa situazione di antinazionalismo, ma alla fine, purtroppo ormai la mentalità della gente comune è questa, e per cambiarla ci vorrà ancora tanto tempo; purtroppo, però, fino a che questo non avverrà, purtroppo avremo sempre questo paese che non essendo amato dai suoi cittadini (e quindi dai loro rappresentanti) non può che essere così decadente e corrotto, a dispetto di un Berlusconi che non è altro che il frutto più estremo della suddetta corruzione, ma non è il male assoluto (per quanto abbia gigantesche colpe).

lunedì 14 febbraio 2011

Sorpresa!

Un'altro sonettino scritto solo per Manu, solo per la festa di san Valentino, anche se a sua insaputa. Nulla da dire a nessun'altro, se non che spero ti sia piaciuta questa piccola sorpresa, Manu!

Sorpresa!

Cucù! Oh Manu, non te l’aspettavi,
Vero, di legger un altro sonetto
A te dedicato, quando andavi
A veder, come io ti ho detto!

Ma amor, oggi è san Valentino
Di noi innamorati la festa;
Come faccio a non star vicino
A te, per cui ho perso la testa?

Così, ecco un’altra poesia
Scritta con tutto il mio cuore
Pensando a te, o amore bello;

E usando la mia fantasia
Per coccolare con tanto amore
Il cuor che del mio è gemello


Buon san Valentino, Manu... ti amo tanto!

sabato 12 febbraio 2011

Il nostro primo anniversario

Oggi è il mio primo anniversario di fidanzamento con la mia anima gemella, Manu, e questa poesia è per lei, e anche per San Valentino, tra due giorni. Null'altro da dire, se non che ti amo da impazzire, Manu!

Il nostro primo anniversario

Un anno fa una persona ero
Abbastanza triste, in verità
Vivere per me era un mistero
Non lo avevo fatto, in realtà

Sempre solissimo stavo allora
In tutto il mondo nessun avevo
Tutt’è bellissimo e diverso, ora
Ed io solo ad una questo lo devo

Sei tu, Emanuela, amore
Che la vita mi hai cambiato
Coi tuoi sentimenti così puri

Ed ora al tuo immenso cuore
Che amo, amerò e ho amato
Do tanti, tanti, tanti auguri


Ancora tanti auguri, mio dolce amore... ti amo tanto!

mercoledì 9 febbraio 2011

Un'odiosa ricorrenza

"Riposa in pace, Eluana" scrivevo su questo stesso blog ormai due anni orsono, che non son molti anche se da allora sembra passata un'era. Oggi, a due anni di distanza da quell'evento, il mio augurio si è rivelato purtroppo sbagliato: come stabilito dal nostro "amato" governo, si celebra la prima giornata degli stati vegetativi, un vero e proprio insulto a tutto ciò che il caso Englaro ha rappresentato. Secondo me è una mancanza di rispetto verso il povero Beppino Englaro, che dopo aver dovuto vedere la scomparsa della propria figlia, e aver visto il suo corpo stuprato da persone che pensavano di aver la verità assoluta, o che peggio lo usavano per convenienza politica, e non solo: ancor peggio, è una vittoria per chi assolutizza i propri pensieri su chi, come me, crede nella libertà di coscienza. Certo, ormai, Eluana è morta da due anni; ma questo caso, anche se vecchio di due anni, mi è comunque rimasto dentro, come un simbolo della libertà di scelta, che troppe volte viene ancora violata, in questa che dovrebbe essere una democrazia e invece è una specie di dittatura in cui comanda non tanto la maggioranza (perché ricordo che due anni fa la maggioranza era a favore della libertà di scelta), ma di una minoranza piccola ma rumorosa, che viene supportata da una classe politica fin troppo zelante verso la chiesa cattolica. Per questo, sono assolutamente schierato contro questa giornata, e mi auspico che in un futuro la libertà di scelta possa progredire, e questa diventi la giornata della libertà di scelta, invece che quello della della sudditanza dei principi di parte sulla totalità delle persone.

P.S. E' un post comunque tirato su nel pochissimo tempo che ho avuto, mi scuso se non coerente come le mie solite riflessioni

sabato 5 febbraio 2011

Anche questa è originalità!

E' bastato qualche altro giorno per scrivere un racconto, in questo periodo apparentemente un po' di down, per me, ma in pratica molto creativo, ed ecco che lo pubblico qui. Anche questo, come quello precedente, è un racconto molto diverso dai miei abituali, e parla di uno scrittore (non di me, perché non compongo racconti con le sue modalità, e non mi piace Dick, giusto per fare due esempi di diversità) che tenta di scrivere un racconto, ma riuscendoci non troppo bene; ovviamente alcune cose sono riferite a me, come il blog o il sogno che ho fatto io, ma alla fine ho voluto fare dello scrittore una persona a se stante. Nient'altro da aggiungere se non che spero sia di gradimento.

Anche questa è originalità!

Lo scrittore sedeva davanti allo schermo del computer, dove un'unica frase in nero spiccava nel bianco splendente di una pagina di Word. Ricordava che, il giorno prima a quella stessa ora, stava esattamente lì, davanti ad un foglio completamente candido, cercando di svagarsi finalmente della lunga giornata che appena passata, e allo stesso tempo di scrivere qualcosa di decente. Era stata una giornata intensa, ma non troppo, così aveva ancora sufficienti energie per piazzarsi davanti allo schermo e cercare di creare. Il suo precedente racconto (“La guerra nel vuoto”) era stato un successo, lo aveva pubblicato sul suo blog e tutti lo avevano lodato: era un’epica storia di battaglie spaziali, con tante esplosioni e tanta azione; ottimo, secondo lui, ma pure, forse, un po’ banalotto e scontato, anche perché molti dei suoi scritti erano su quel tipo di argomenti. Aveva così deciso, senza pensarci due volte, che nel suo racconto successivo avrebbe scritto qualcosa davvero all’avanguardia, qualcosa mai scritto prima, e totalmente originale: e così aveva passato quella serata a fissare lo schermo, con il cursore che lampeggiava piano piano, aspettando che il racconto uscisse da se, come spesso gli capitava; ma quella volta, a lui nessuna idea veniva in mente, non aveva nessun tema particolare sul quale costruire la sua trama, nulla che consentisse un racconto come lo voleva, che del resto non poteva uscirgli così, a tavolino. Decise che era troppo stanco e che era tardi, la mezzanotte era passata da quasi un’ora, così chiuse il laptop e andò in camera sua, a dormire. Prese sonno quasi subito, e sognò per tutta la notte di essere una grande aquila reale, e di volare sempre in alto, sfruttando le correnti che su quella catena montuosa abbondavano; tornava però ogni volta, per mangiare e quando sopraggiungeva la notte, al nido delle aquile sul picco più alto, un posto che era, per qualche motivo, quasi come magico, e dove abitavano degli studiosi con cui loro, le aquile, avevano quasi un rapporto di amicizia.

Si svegliò la mattina ben riposato, fece tutto quello che faceva di solito prima di andare all’università e poi lasciò la casa senza pensare minimamente, per tutta la mattina, alla storia che doveva scrivere. Solo il pomeriggio, dopo il ritorno a casa e il soddisfacente pranzo, si rimise davanti al monitor. Cercò di farsi venire in mente cosa scrivere. E… non ci doveva pensare nemmeno troppo, l’idea giusta gli venne in un momento: Il sogno delle aquile sarebbe diventato un racconto! Come idea non era male, ma doveva concretizzarla: provò così a scriverlo in diversi modi, ma già l’incipit gli creava qualche problema. Tentò allora di scrivere il corpo, o almeno di sbozzare una trama, ma si accorse che quello non era proprio nelle sue corde, che doveva scrivere qualcosa di diverso, più consono al suo stile, e quindi una storia che oscillava tra lo psichedelico e lo sci-fi. L’aquila, per qualche collegamento mentale, gli portò alla mente gli indiani d’america: quale miglior tema se non un viaggio mistico dei nativi, dovuto alla trance che le loro particolari erbe davano a quei popoli? Ci pensò e ripensò, ma non gli venne in mente, nondimeno, una storia specifica, per quanto ci provasse. Provò a ritornare sulle aquile, ma ancora nulla, e in più stava cominciando a dimenticare il sogno, non ne ricordava nemmeno metà, a quel punto. Maledizione! Decise di lasciar perdere il computer e di sdraiarsi sul letto, a leggere il primo volume de “Le Presenze Invisibili” di Philip Dick che giaceva tra gli altri sullo scaffale della sua camera: forse dalla varietà di quell’antologia di racconti sarebbe stato ispirato, anche se sapeva che non doveva cadere nella tentazione di scrivere un racconto simile a quelli.

In due ore lo scrittore lesse molte delle novelle di quel libro. Che originalità, che bellezza, che trame! e che bravissimo scrittore era Dick! Appena chiuse il volume, si sentì pieno di idee, così tornò al computer e riaprì il foglio di Word. Ecco l’idea, un mondo in cui l’uomo è succube dell’informazione delle macchine! Cominciò a scrivere, ma poi cancellò tutto: ma dannazione! Quello che gli era uscito era, in pratica, la trama de “I Difensori della Terra” che aveva letto poco tempo prima! Comunque di idee ne aveva a sufficienza, così cominciò un’altra volta. Di nuovo la fantasia lavorò, e in mente gli venne l’idea di un’astronave, che esplorando lo spazio trovava un pianeta, la cui popolazione di batteri era come viva, e lavorava in simbiosi, pensando come un unico essere planetario. Come si sarebbe chiamato, però, quel pianeta? “Nemesis”, era ovvio! Ma caspiteraccia! Era l’esatta trama dell’omonimo romanzo di Isaac Asimov, autore che lo scrittore amava molto di più di Dick. Non c’era niente da fare, quel racconto non ne voleva sapere di scriversi, e se gli veniva in mente qualcosa, era una trama già utilizzata da qualcun altro. E lui, ormai, si era posto come obiettivo di scrivere a tutti i costi qualcosa che fosse davvero e solo originale: e l’unica soluzione che vedeva per raggiungere il suo ambizioso obiettivo era scervellarsi. Si piazzò quindi davanti allo schermo, tristemente ancora bianco, e lo fissò, quasi come se avesse voluto auto-ipnotizzarsi. Non funzionava, però, così cambiò approccio e cominciò a ragionare sul titolo, tanto fatto il titolo vuol dire essere a metà dell’opera, pensava lui. In un denso brainstorming dentro se stesso, gli vennero in mente i titoli più svariati, che si dividevano però tra quelli bellissimi a dirsi, ma che non gli ispiravano nulla, men che meno un racconto (come per esempio “Dimensional Dementia”, “Il cuore del caos”, “Un’eternità infinita”, “Blackout elettronico” o “Tra Dover e Calais”) e quelli che invece gli suggerivano solo racconti simili ad altri già scritti da lui o da qualche scrittore famoso (come “Il tiranno mondiale”, “La guerra santa”, “Una notte insonne”, “Apocalisse tecnologica”, “La casa stregata”). Alla fine, nemmeno un solo titolo tra le centinaia che aveva pensato si poteva adattare al suo ambizioso scopo, così decise di lasciare perdere ed assecondare gli occhi che rifiutavano ormai di fissare lo schermo, chiudendo le palpebre. Chiuse il portatile e si sdraiò sul divano per un riposino tardo-pomeridiano, anche se di certo non avrebbe dormito.

Come prevedibile, nonostante le sue intenzioni, il sonno lo colse comunque. Nemmeno il sogno però gli diede alcun ristoro: sognò di essere ancora al computer, e di dover trovare di nuovo un tema al suo racconto. Le parole e le frasi gli venivano in mente una dietro l’altra impetuose, come in un flusso di coscienza degno del miglior Joyce, ma nel quale le parole non erano casuali, erano assonanti con le precedenti oppure loro anagrammi. Si riempì di parole il cervello, e dopo poco si svegliò: stavolta, dopo quell’esperienza, ci sarebbe riuscito, sarebbe stato sufficientemente ispirato da scrivere qualcosa di degno del suo obiettivo. Corse davanti al computer ed aprì nuovamente la pagina di Word: ma stavolta constatò, amaramente, che non gli veniva nessuna idea, nemmeno per un titolo come quelli che almeno, prima, gli venivano così naturali. La paura lo sorprese allora, colpendolo senza pietà: stava, come gli sembrava nell’angoscia di quel momento, perdendo tutta la sua intelligenza, per qualche motivo a lui oscuro? O era solo una crisi momentanea di creatività? Uno stato di fortissima ansia colse lo scrittore in quel momento, così egli decise di staccarsi da quel desolante schermo bianco, per dedicarsi alla preparazione della cena che ormai era imminente.

Dopo la cena, si rimise al computer. Per l’ennesima volta, era determinato a tutto pur di scrivere qualcosa di veramente originale, a costo di friggersi il cervello. Di nuovo cominciò a provare ad afferrare tutti i pensieri che, alla rinfusa, arrivavano nella sua stanca mente, ma era ancora più confuso del pomeriggio. Un ragionamento però lo colpì, in particolare: e se non fosse stato colpa sua, il fatto di non avere la possibilità di scrivere qualcosa di originale? E se fosse stata la cultura in se che aveva prodotto ormai tutto quello che si poteva produrre, e ciò che veniva poi erano solo “copie”, per quanto valide e non intenzionali? Più passava il tempo, e più questa idea lo attraeva, e i pensieri andavano tutti in quella direzione. Arrivò, con questa riflessione, ad esserne certo: oramai la civiltà era andata tanto avanti che tutto quello che si poteva scrivere era stato scritto; ma se questo era assodato, come avrebbe potuto mai scrivere qualcosa di seriamente originale? Il pensiero lo rese molto triste, quasi al limite della disperazione: non aveva speranze di arrivare al suo obiettivo. All’improvviso, però, un’ultima idea raggiante lo colse, e digitò sul computer. Sullo schermo apparvero le parole “anche questa è originalità!”. Non era solo il titolo del racconto, capì lo scrittore, ma anche la storia stessa, e anche se erano solo quattro parole, aveva finalmente scritto qualcosa di avanguardistico, mai visto prima, qualcosa di finalmente originale al cento per cento. Ora si che era appagato, finalmente! Fissò un altro po’ lo schermo, in pace con se stesso; poi salvò tutto nell’hard disk del computer, e andò a dormire contento.

Come andò a finire la storia? Semplice. Il giorno dopo lo scrittore iniziò un nuovo racconto (dal titolo “Nel nucleo della galassia”), ancora su astronavi e viaggi spaziali, magari non originale, e con qualche punto di contatto coi precedenti; ma era validissimo, tanto che, quando fu finito e pubblicato sul suo blog, tutti i suoi lettori gli fecero i complimenti, ancora una volta. Quanto al racconto “Anche questa è originalità!”… fu cancellato quel giorno stesso dalla memoria del computer, e nessuno lo vide mai più, per fortuna dello stesso scrittore, che mai avrebbe pubblicato quel racconto così originale ed allo stesso tempo così insulso.

martedì 1 febbraio 2011

Una notte come tante altre

Ecco qui un nuovo racconto, abbastanza particolare, poiché penso sia il primo che non ho immaginato io; o meglio, tecnicamente così è stato, ma in pratica è stato il mio subconscio, che ha generato tanti sogni, in tante notti diverse. L'unica mia "invenzione" è stata di scriverli e di farne un racconto, ed è questo che ora vi presento, un racconto dei più onirici tra quelli che ho mai scritto. Spero comunque sia di gradimento come gli altri.

Una notte come tante altre

Era stata una giornata comunissima, quella, per me. Il pomeriggio lo avevo diviso tra la mia bellissima ragazza, il computer, la musica, una bella passeggiata di fuori e la mia batteria. Dopo la cena abbondante, la serata era stata altrettanto piacevole: l’avevo trascorsa guardando il mio adorato Superquark, sdraiato sul divano, ed ero riuscito a vederlo fino alla fine, resistendo contro le palpebre che cadevano, per la stanchezza di quel giorno, oltre che per i miei soliti problemi di insonnia. Quando però l’aria sulla quarta corda di Bach, che segnava la fine del programma, venne diffusa dal televisore nel mio salotto, decisi che era abbastanza, e che era davvero ora di andare a dormire. Salii le scale e mi recai in camera: qui, dopo aver messo il pigiama, aver indossato la benda per gli occhi e i tappi nelle orecchie, con cui sono abituato a dormire, mi ero sdraiato sul mio accogliente letto a due piazze, subito dopo aver spento la luce. Come sempre, però, dormire non fu un’impresa facile: è davvero arduo riposare, quando non riesci a far altro che ascoltare il cuore che batte, molto veloce per qualche strano motivo o forse per qualcuno dei troppi farmaci che prendo, e ripensare a tutti i fatti del giorno, quelli buoni compresi, ma comprese anche le ansie che inquinano sempre anche il più bello dei miei giorni. In questa fase, come sempre succede, i pensieri mi avvolsero, e mi ritrovai a pensare le cose più assurde, a riflettere, a non darmi pace, a insistere su pensieri stupidi. All’improvviso, poi, il letto sussultò e, si mosse violentemente in tutte le direzioni, girando vorticosamente ma senza sbalzarmi via; in poco tempo, poi, tornò piano, e fu allora che partì verso l’avanti. A quel punto il materasso era diventato come una macchina, si muoveva in avanti come su una strada, anche se non ero io a controllarlo. Andavo avanti su una pianura verde e soleggiata, e il vento mi scompigliava i capelli; l’aria era calda, forse anche troppo, e doveva essere primavera piena. Durò molto poco, però, perché poi tutto cambiò. Ora era notte, e nella semioscurità mi accorsi appena di essere in un cimitero. Al buio, cominciai a girovagare senza un luogo preciso dove andare, non mi importava nulla. Ovunque, cippi e lapidi semi-sgretolate, l’erba che invadeva tutto, e una calma irreale, un silenzio di tomba appunto. Ad un certo punto mi sentii come stanchissimo, ed allora mi sedetti su una panchina che era lì, con gli occhi che quasi mi si chiudevano.

Mi accorsi a malapena di essere, in pochi istanti, passato ad un nuovo sogno, quando mi ritrovai in una stanza che ricordava in tutto e per tutto un’aula scolastica, piena di banchi vuoti. Io non mi sentivo studente, più un osservatore venuto da fuori, ma il motivo reale per cui ero lì non lo sapevo. Ad un tratto entrò la professoressa, e la riconobbi: era la mia ragazza. Le corsi incontro, e la strinsi forte, stringendola e baciandola, con trasporto; tanto non c’era nessuno, eravamo soli io e lei. Avrei voluto tanto restare abbracciato a lei per tutto il resto del tempo che avevo da sognare, ma come purtroppo succede sempre, però, i sogni così belli durano ben poco; poi, di nuovo senza quasi rendermene conto, la situazione cambiò di nuovo. Ero a casa di una mia zia, me ne rendevo ben conto, ma per qualche strano motivo tutto era diverso da come lo ricordavo. C’era come un albero al centro del salotto, oppure era un palo, non so bene come descriverlo efficacemente vista la sua natura stranissima; ed era circondato da tante piattaforme circolari. Su di esso, era montata una scala di corda che era come un invito ad andare su, così la usai e mi arrampicai in alto: salendo vidi c’erano diversi piani di quelle piattaforme, ed intorno ad ognuno danzavano scarabei, farfalle ed altri insetti, che sembravano intelligenti e consapevoli di se stessi al punto da formare coreografie in un balletto straordinario. Che spettacolo meraviglioso! Arrivai in cima all’albero, all’ultimo piano, c’era una piccola casetta, come una grande coffa di una nave, che stava lì, in alto, semiaperto all’esterno. All’interno trovai i miei genitori, che subito, appena entrato, parlarono: mi dissero che quel posto era stato costruito da loro e dai miei zii come un bellissimo teatrino, dove gli insetti si esibivano per compiacere gli uomini. Dall’altra parte, sopra ad un altro palo, con il piccolo binocolo, osservai che c’era un piccolo palchetto, issato su un altro palo: e dentro, tante farfalle multicolori formavano le figure più fantasiose, cambiando di tanto in tanto come in un gioco di coloratissime ombre cinesi. Era tutto meraviglioso, veramente, ma non potevo rimanere a guardarlo a lungo, sentivo di dover scendere, del resto era altissimo, lassù, e all’improvviso soffrivo di vertigini, persino molto di più del solito. Discesi le scale lentamente e con prudenza, e mi ritrovai di nuovo nel soggiorno, da dove vedevo che gli insetti, lassù in alto, ancora danzavano intorno all’albero; ma dove ero io, in basso vicino al terreno, era stato installato un tavolinetto con al centro, come pilastro, proprio il palo; e tutto intorno c’era un cerchio di lussuose poltrone rivestite di velluto. Una persona, vestita elegantemente, mi si avvicinò e mi fece sedere su una delle quattro poltrone rosse corrispondente a ciascun lato del tavolinetto, e nelle altre tre sedettero poi mia zia e i miei cugini. Mi sentivo a disagio: non facevo parte della famiglia della mia zia, perché sedevo lì insieme a loro? Rimasi, però, e nelle altre poltrone vennero fatte sedere persone a nostra scelta, purché di sangue nobile, come noi, evidentemente, eravamo. Discutemmo poi a lungo, di politica e di sociologia, e io mi intromisi nel discorso parlando della politica di Obama. Nessuno però conosceva il nome di quest’ultimo, si parlava solo di uomini politici vissuti nel tardo ottocento, così mi stancai subito di quella discussione e spostai la mia attenzione a quello che accadeva fuori della finestra, dove una coppia di piccioni girovagava tranquillamente sul cornicione del palazzo di fronte, come sono soliti fare questi uccelli. Ero una colomba, ora! Dopo aver dato un’occhiata alla gente che discuteva insensatamente all’interno della casa, spiccai il volo e me ne andai via. Volare era splendido, il dolci venti caldi mi accarezzavano, ed era bello stare in volo sopra le nuvole, guardando tutto e tutti dall’alto in basso. Non so però cosa sbagliai, perché poco dopo la partenza, improvvisamente, entrambe le ali che avevo si ruppero, e caddi giù, rapidissimo, verso il terreno. Sotto c’era la campagna, dove pochi secondi prima c’era la città, e feci appena a tempo a veder le cime degli alberi avvicinarsi quando mi schiantai pesantemente sul terreno. All’improvviso mi risvegliai, con un forte scossone e un dolore nella parte bassa del fianco, proprio il punto su cui ero caduto. Ero nella camera della casa che affitto per studiare a Padova, sdraiato nel mio letto: come era possibile? Avevo sognato anche Superquark e l’essere andato a letto nella casa dei miei genitori? Non lo sapevo, ma nemmeno mi importava: l’unica cosa iin quel momento calamitava la mia attenzione era il fastidio che mi dava il rumore che nell’altra stanza facevano i miei coinquilini, come se stessero facendo festa. Ancora, a quell’ora? Ma era tardissimo, l’una di notte, e la cosa era ben fastidiosa. Tentai di tapparmi le orecchie (del resto già riempite dai tappi), ma li sentivo ancora: e udivo in particolare la risata di uno di loro, che nonostante la mia volontà saliva, e si sentiva sempre di più, quasi come se fosse entrata nella mia mente. E poi… si modificava, diventava una risata malata e cupa, paurosissima per quanto era malefica. Mi faceva davvero impazzire, volevo fuggire ma il mio corpo era paralizzato, mi sarei addirittura ucciso, tutto per far finire quell’orripilante suono demoniaco.

La risata finì davvero, e realizzai che anche quello era stato semplicemente un sogno, e solo ora ero davvero sveglio. E così era: di nuovo ero a casa, ed erano le tre di notte. Mi alzai per andare un momento al bagno, poi tornai a letto; e lì, ancora una volta, rimasi per parecchio tempo, impegnandomi nuovamente nello sforzo di dormire, ma senza successo. Le provai tutte, dalle classiche pecore ad immaginare di essere in pace col mondo, ma ogni volta però non riuscivo a dormire. Stavo quasi per desistere quando, improvvisamente, tutto cambiò ancora una volta. Era ancora quasi buio, ma ero su una strada, con i lampioni ai lati e uno scarso traffico, con qualche vecchissimo modello di automobile che di tanto in tanto passava sulla strada, lento. Sapevo dove dovevo andare: al palazzo in cima al monte che c’era al centro della mia città, così imboccai il marciapiede e mi avviai. Nella direzione contraria alla mia, tanti soldati sfilavano compatti in fila indiana, con delle luci in una mano e il moschetto nell’altra: era uno spettacolo ben strano, alcuni di loro sembravano perfino bambini, e non capivo che manifestazione fosse; poi un flash, e subito dopo realizzai di essere a conoscenza di ogni cosa. Mi accorsi all’improvviso che sapevo di esser tornato indietro nel tempo, e che dovevo arrivare in alto per impedirmi di fare una cosa terribile: incontrare Mussolini nel suo palazzo regale. Non mi sembrava assurdo, nemmeno se sapevo che il duce era morto quarantatre anni prima della mia nascita, ma in quel momento non vedevo nulla di strano; al contrario, avevo questo ricordo che i miei genitori mi avevano portato al suo palazzo, dove Mussolini mi aveva benedetto, con tutti gli altri bambini della mia età. Era terribile, da antifascista dovevo fermare me e mio padre! Arrivai sulla cima dell’altura col fiatone, e vidi lì, all’entrata dell’immensa villa di Mussolini, me stesso giovanissimo che, sulle spalle di mio padre, mi avviavo proprio ad entrare nell’uscio. Ero arrivato troppo tardi purtroppo, ma sapevo di avere un’altra speranza. Scesi gli scalini che mio padre aveva percorso, soffermandomi di tanto in tanto a far passare le troppe persone che salivano alla reggia. Sapevo che mia madre era molto indietro, rispetto a noi due, perciò mi fermai in un punto dove la scala pianeggiava in uno spiazzo più largo e non davo fastidio alla colonna di persone; lì, sull’intonaco del muro che delimitava quel passaggio, scrissi un messaggio a lei diretto. Non sapevo cosa scrivere, ma per fortuna le mani si muovevano da sole e compilavano il graffito. Non seppi mai cosa avevo scritto, sapevo solo che da lì dovevo andarmene: comprai una piccola torcia dal banchetto che c’era là accanto e mi avviai, ancora giù per la discesa che dal paese porta alla valle. Camminando senza una meta precisa, mi ritrovai come per magia sulla strada di campagna che porta a casa mia. Era ancor più buio, e mi avviavo, nella fitta nebbia, verso casa mia. Ad un tratto, un ululato in lontananza mi impaurì molto: mi girai, e dopo un po’, dalla bruma emerse un gigantesco cane grigio, gli occhi rossi che brillavano sinistri, e le zanne aperte in un ringhio tremendo, che mi correva incontro. Spaventatissimo, corsi via e mi arrampicai in cima all’albero più vicino; ma il mostro fu rapidissimo, fu su di me prima che io riuscissi a sottrarmi a lui, e con un grande balzo arrivò a ghermirmi con i suoi denti, tirandomi giù dall’albero, mentre urlavo e già mi arrendevo alla calata dei suoi denti sulla mia gola.

E’ l’ultima cosa che ricordo di quella notte, poi mi sono svegliato, e ho guardato l’orologio. Nove e mezza, benissimo, anche quella notte avevo dormito abbastanza. Lo sentivo nelle ossa, di aver riposato poco a causa dell’insonnia, che mi aveva fatto svegliare innumerevoli volte senza che me ne accorgessi, ma nel complesso mi ero svegliato sereno, e non mi importava. Lentamente, mi alzai: ed ecco che, dopo una notte così ordinaria ripartii per una nuova giornata.