mercoledì 31 dicembre 2014

2014

E come ogni anno, anche stavolta eccomi qui, col solito post di carattere personale, più per me stesso che per gli altri, a riepilogare questi 365 giorni che ci lasciamo stasera alle spalle. Comincio subito col dire che il mio 2014 è stato un anno così così, di colore grigio tendente al nero. Non nego che ci siano stati anche grandi soddisfazioni, professionali e personali, ed ho vissuto molti bei momenti, che tirano su anche di parecchio la media di quest'anno. E' stato merito principalmente della mia Monica, che ha reso speciale quest'anno passato totalmente insieme, in convivenza, e che è la persona che più vorrei ringraziare quest'anno; una parte del merito va però anche alle persone con cui ho lavorato e quelle che quest'anno hanno cominciato a seguirmi, per la maggior parte su Heavy Metal Heaven ma anche qui (perciò, mille grazie anche a te che stai leggendo). Dall'altra parte, però, è stato un anno estremamente stressante a causa soprattutto del mio nuovo lavoro in gelateria, non tanto per la fatica in sé quanto per essere stato costretto al contatto con un pubblico irritante ed idiota ad un livello che non avrei mai nemmeno potuto immaginare. Questo ha fatto crescere moltissimo la mia naturale misantropia, prosciugando totalmente le mie energie (fisiche e mentali) e la mia tolleranza: fatto sta che ancora oggi, a quasi tre mesi dalla chiusura della gelateria, ancora sento le mie "batterie" estremamente scariche.

Dal punto di vista creativo, in ogni caso, è stato questo un anno ugualmente molto positivo. Se mi avete seguito, avete potuto vedere che ho postato la bellezza di dieci racconti quest'anno qui su Hand of Doom (undici se contiamo anche il frammento "Un giorno di ordinaria gelateria"), ed alcuni di questi sono anche tra quelli che, per quanto poco possa contare il mio giudizio personale, trovo tra i migliori che abbia mai scritto. Ho anche cominciato un progetto pure più importante dei racconti, che procede a meraviglia, ma di cui non saprete nulla fino al suo completamento (che, nei miei piani, dovrebbe arrivare all'incirca nel corso di quest'estate). Dall'altra parte ho scritto tuttavia pochissime poesie rispetto al solito, ma non è stato né un caso né una questione di pigrizia, bensì una scelta conscia: di fatto, non mi ritengo un poeta decente ed all'altezza della situazione, mentre credo che i miei racconti siano nel paragone più riusciti e più apprezzabili, ed ho preferito perciò concentrarmi molto di più su questi ultimi.

Tendenzialmente, il mio 2014 è stato perciò negativo, seppur di poco, il che però da un certo punto di vista mi ha permesso di crescere ancora e di andare avanti. Forse quindi va bene anche così, non tutto il male in fondo potrebbe venire per nuocere, e magari, anche se adesso ancora non lo so, è stato questo un passaggio obbligato per raggiungere quel "vivere bene" che come dicevo nel bilancio del 2013 sarebbe stato lo scopo di quest'anno. Come sempre, chi vivrà vedrà, ma spero proprio che il 2015 sia un ottimo anno, molto meglio di quello passato; nell'attesa di conoscere se così sarà, auguro a tutti voi, miei pochi lettori, un felice anno nuovo!

E il vostro anno? Come è stato?

mercoledì 24 dicembre 2014

(i soliti) Auguri di natale!

Come sempre in questo periodo dell'anno, vorrei augurare a tutti voi, miei pochi ma stimatissimi lettori e sostenitori, che possiate passare le vostre vacanze natalizie nella maniera più felice possibile. Buon natale e (per il futuro) buon anno nuovo!

martedì 16 dicembre 2014

La scoperta

Come vi avevo promesso, ecco qui un nuovo racconto, tutto per voi! E' questo un racconto che ho cominciato diverso tempo fa, forse quasi un anno, ma dopo poco l'ho abbandonato: mi pareva infatti che il mio stile non fosse sufficientemente buono per riuscire a scrivere qualcosa di così particolare com'era questa bozza già dall'inizio. Qualche settimana fa l'ho ripreso e l'ho concluso senza toccare la trama, che è rimasta la stessa pressoché dall'inizio, ma cambiando molto a livello di forma: forse sarò maturato stilisticamente rispetto al tempo in cui l'ho inizato, o forse ho semplicemente più esperienza e più facilità di scrittura, chi lo sa. In ogni caso, è un racconto del mio genere più classico, di fantascienza; spero per questo che ve lo godrete, anche per il fatto che questo è l'ultimo post prima della pausa natalizia.

La scoperta

L’altimetro della plancia di comando della Parbas segnalava che la nave si trovava ormai in prossimità del terreno: era giunto il momento dell’atterraggio.
“Ci siamo!” pensò Æsper mentre alzava al massimo i razzi di frenata. La cloche si fece più rigida, e la nave cominciò a vibrare leggermente; il suo pilota la controllò però con mano ferma, guidandola finché le sue sei solide zampe d’atterraggio non si posarono con un lieve scossone sul terreno.
“E’ fatta, finalmente!” esultò tra se Æsper, sospirando e rilassandosi contro il sedile di pilotaggio. In quel momento la tensione accumulata nei lunghi minuti della discesa si sciolse di colpo, ed una fortissima stanchezza gli piombò addosso.
“La mia impresa può aspettare un giorno” pensò mentre si alzava cautamente, per poi imboccare il lungo corridoio che dalla sala comando portava alla cabina. Appena vi fu giunto si spogliò velocemente e si infilò nel letto, addormentandosi quasi all’istante.
Il suo sonno fu così pesante che al risveglio, per un momento, si allarmò nel non avvertire il lieve ronzio causato dal viaggio attraverso l’iperspazio, ricordandosi solo dopo qualche attimo dei fatti del giorno prima. Anche quando si fu svegliato del tutto, tuttavia, la sua epocale scoperta continuò a sembrargli irreale, quasi un sogno. Tutti i pianeti individuati fino ad allora nella breve storia dell’esplorazione iperspaziale di Erthæ erano totalmente inabitabili, per un motivo o per un’altro; quello invece, dalle analisi in orbita, sembrava avere un’atmosfera accogliente, con una quantità di ossigeno ed una temperatura più o meno analoghe a quelle del pianeta di Æsper. Gli unici problemi erano la gravità e la pressione, entrambi piuttosto basse, ma la tuta esplorativa poteva tranquillamente sopperire ad entrambe: era stata così semplice la decisione di scendere sulla superficie. La scoperta che lo avrebbe fatto reso famoso era però un’altra: nelle ultime fasi della discesa l’esploratore aveva notato delle irregolarità sul terreno, ed avvicinandosi ancora ne aveva potuto constatare la vera natura. Non erano rocce né formazioni geologiche di qualche tipo, sembravano invece essere alberi. Alberi! Era in assoluto la prima forma di vita aliena mai scoperta ed Æsper, di conseguenza, sarebbe divenuto il più famoso esploratore solitario nella storia di Erthæ. Non aveva altro da fare, per documentare l’impresa, che ispezionare un po’ la zona nei dintorni del luogo d’atterraggio e raccogliere campioni ed informazioni sulle forme di vita presenti, poi sarebbe potuto decollare di nuovo alla volta del suo pianeta. Così, dopo aver passato un’ora a fare rilievi dalla sala comando della nave, Æsper indossò la tuta esplorativa. Entrò quindi nella camera di pressurizzazione e premette il bottone di apertura: con un lieve clangore il portellone comincio a scorrere, lasciando per un momento fuoriuscire un intenso flusso d’aria. Rapidamente la situazione si stabilizzò, e Æsper poté affrontare la scaletta: era fuori! La prima cosa che lo colpì fu il terreno: era in apparenza ricoperto di qualcosa di simile alle rocce sedimentarie, eppure aveva una consistenza più friabile, per non parlare poi del suo strano colore grigio-rosaceo. L’esploratore raschiò via un po’ di scaglie di roccia dalla superficie e le mise in un sacchetto che infilò in una delle larghe tasche laterali della tuta: le avrebbe fatte analizzare al suo ritorno su Erthæ. Riprese quindi a camminare, finché non fu uscito da sotto alla pancia della Parbas; lì si fermo a guardarsi intorno. Il panorama, illuminato da una luce tra il bianco ed il verde chiaro, era simile in tutte le direzioni, ma ai suoi occhi appariva estremamente bello, di un fascino alieno, soprattutto per merito della foresta che circondava la piccola radura in cui era atterrato e creava un contrasto netto con l’azzurro del cielo, così simile invece a quello del suo pianeta natale. Æsper si diresse proprio verso il bosco, ed appena fu giunto al limite della vegetazione prese ad osservarla: erano alberi alti e di colore marrone spento, che si levavano altissimi e senza alcuna ramificazione, al contrario di quelli di Erthæ. Altre piante là attorno erano di colore nero, ma a parte questo erano simili in tutto e per tutto a quello davanti a cui lui si trovava. L’esploratore scattò qualche fotografia e prelevò un campione di corteccia da uno degli alberi; poi, eccitato alla prospettiva di nuove scoperte, si mise in cammino.

Vagò a lungo per la foresta senza incontrare un solo animale, nemmeno di piccolissima taglia. L’unica forma di vita presente sul pianeta, o almeno su quella parte di esso, erano evidentemente quegli alberi.
“Probabilmente questo è un pianeta giovane dal punto di vista evolutivo, gli animali non hanno ancora colonizzato la terraferma, si trovano solo negli oceani” ipotizzò Æsper, riportando alla mente i suoi vecchi studi di biologia. Continuò a camminare, scattando ogni tanto qualche foto, ma ormai il suo fascino per quel mondo era per gran parte scemato: il paesaggio era sempre uguale a se stesso, non cambiava quasi per nulla man mano che avanzava. Fosse stato un esobiologo probabilmente sarebbe stato ancora esaltato, ma lui non riusciva più ad apprezzare quella monotonia, per quanto imponente e rigogliosa.
“E’ il caso di tornare indietro, direi” decise infine, e si fermò nel mezzo della foresta: proprio in quel momento, notò davanti a se un piccolo movimento, quasi impercettibile. C’era qualcosa che camminava tra gli alberi in lontananza, e che si muoveva proprio nella sua direzione, rapidamente, quasi a balzi. Infine, spuntò tra gli alberi, trovandosi a pochissima distanza da lui: Æsper poté così vedere che era una bestia alta il doppio di lui e dall’aspetto orribile. Aveva un corpo tozzo e tappezzato qua e là da grosse escrescenze che culminava nella testa, piccola rispetto al resto ma comunque imponente, su cui oltre a due occhi spenti, da morto, spiccava una grossa bocca, ricoperta da piccoli tentacoli ed incorniciata da quelli che sembravano due lunghi baffi. L’esploratore a quella visione fu preso dalla paura, ma riuscì a mantenersi calmo, preparandosi a difendersi. L’animale volse per un attimo la testa verso di lui, mettendolo ancor di più in agitazione; poi, con gran sorpresa di Æsper, si raddrizzò e con un piccolo balzo riprese la sua marcia nella stessa direzione.
“Deve essere un animale erbivoro. Del resto qui attorno non sembrano esserci abbastanza prede di cui un carnivoro possa cibarsi” si disse l’esploratore, sospirando rinfrancato. Ora che la paura stava lasciando rapidamente spazio alla curiosità ed alla voglia di conoscere, decise sul momento di rincorrere quell’essere al tempo stesso così brutto e così affascinante.

Gli tenne dietro per qualche minuto, di corsa per non perderlo di vista. La fatica cominciò a farsi sentire, ed Æsper stava quasi per lasciar perdere l’inseguimento, quando l’animale si arrestò, in una zona dalla vegetazione meno fitta. Appena gli fu vicino, l’esploratore poté vedere che in uno spazio leggermente più largo tra gli alberi, quell’essere si era acquattato a terra e si scuoteva piano. Cautamente, cominciò ad avvicinarsi ancora di più, cercando di capire meglio cosa stesse facendo; contemporaneamente, un improvviso boato squarciò l’aria. Nel giro di qualche istante, dal nulla esplose una pioggia violenta che iniziò a percuotere con forza tutto il terreno lì attorno. Æsper si mise al riparo sotto un albero, mentre l’animale si trovava ancora allo scoperto: appena ne fu colpito, cominciò a scuotersi con foga, per poi accasciarsi a terra, stecchito. L’esploratore si stupì: si sarebbe aspettato che l’animale fosse abituato a quella strana precipitazione, che era probabilmente la norma su quel pianeta.
 “Deve essere pioggia acida. Chissà come hanno le forme di vita ad evolversi e a sopravvivere qui, su questo pianeta così inospitale.” si chiese Æsper. Lo scroscio durò pochissimo tempo, per poi estinguersi quasi di colpo. Quando vide che non cadeva più nemmeno una goccia, l’esploratore controllo la propria tuta: sapeva che poteva resistere a ben altro che ai pochi schizzi corrosivi che gli erano giunti, ma era meglio controllare che fosse tutto a posto.
“Nessun danno, neppur lieve.” constatò infine, sollevato, prima di prepararsi al rientro: ne aveva abbastanza di quel pianeta, almeno per il momento. Infilò le mani nella tasca degli attrezzi, alla ricerca del dispositivo che consentiva di far volare l’astronave fino al punto in cui si trovare: frugò a lungo, ma non riuscì a trovarlo.
“Dannazione, non c’è! Lo avrò lasciato sulla Parbas? No, ho controllato prima di partire e c’era. Mi sarà caduto mentre inseguivo quel mostro? Dannazione!” imprecò tra sé, mentre le sue dita si infilavano in un piccolo buco, che non aveva notato prima di allora. Senza quell’oggettino, l’esploratore era costretto a trovare la nave da solo: sconsolato, si volse perciò nella direzione da cui era giunto inseguendo il mostro e prese a muoversi.

Dopo un’ora di cammino, Æsper dovette arrendersi all’evidenza: si era perso.
“Dannazione a me stesso” imprecò, fermandosi in cima al pendio che affrontava ormai da un po’, credendo di averlo percorso in discesa all’andata. Si sentiva affaticato, nonché ansioso più che mai. Smarrito, si guardò intorno: da lassù si poteva vedere l’intero panorama, constatò subito. Davanti a sé vi era un pendio piuttosto ripido, che terminava bruscamente: partiva da lì una foresta dall’aspetto molto diverso da quella che aveva percorso fino ad allora.
“Oh mio dio, eccola là!” pensò d’improvviso Æsper, scorgendo una forma familiare: anche se piccola piccola, in lontananza, sembrava proprio la sua astronave. Ma come era arrivata laggiù, in quel posto in cui era certo di non essere mai passato? E come mai sembrava muoversi leggermente?
“Forse un altro di quei mostri ha trovato il comando a distanza, e giocandoci a caso ha inavvertitamente fatto muovere l’astronave. Oh, sia lodato il suo sistema automatico antischianto!” si disse Æsper. Non era molto probabile fosse andata davvero così, ma a quel punto, stufo com’era di quella escursione, non gli importava nulla: prese così a discendere il pendio, diretto verso l’astronave, unico luogo del resto dove avrebbe potuto scoprire la verità.

Scese molto velocemente, facilitato anche dal fatto che il terreno in quella zona non fosse per nulla accidentato: presto si ritrovò alla zona di confine che aveva visto dall’alto. Era un limite incredibilmente netto: la base di roccia finiva all’improvviso e ne cominciava un’altra all’apparenza di sabbia, o di terriccio. Anche la vegetazione cambiava radicalmente: alle ultime piante del tipo che aveva incontrato fino ad allora, stranamente dall’aspetto cadente e malato, se ne sostituivano di anche più alti, totalmente verdi, seppur di aspetto vagamente simile ai precedenti.  
“Forse questi alberi sono più simili a quelli di Erthæ, si alimentano con la fotosintesi” pensò l’esploratore fermandosi per un momento a guardarsi attorno, prima di riprendere il cammino. Continuò a muoversi in linea retta per qualche minuto,a passo rapido, finché non si ritrovò in una nuova radura, molto ampia e del tutto brulla. Dall’altra parte, con somma gioia, scorse la Parbas: era immersa tra gli alberi dall’altra parte della macchia e si spostava adagio.
“Il difficile sarà ora entrare di nuovo dentro, ma se riesco ad arrampicarmi su un albero e poi a saltarle sopra quando si tufferà di nuovo nella foresta, dovrei farcela” si disse l’esploratore, calcolando la direzione in cui si muoveva. Presto lo comprese, e corse verso la zona verso cui la Parbas si muoveva; appena vi fu arrivato, si mise alla ricerca di una pianta adatta al suo piano. La individuò, e si apprestò a salire, ma prima controllò che fosse sulla precisa traiettoria della nave: ciò che vide lo lasciò di stucco e lo spaventò. Quella che credeva essere la Parbas era in realtà un animale gigantesco, forse leggermente più piccolo della nave ma con una forma molto simile, a clessidra, le stesse sei zampe e lo stesso colore tra il rosso ed il nero: nessuno stupore che l’avesse scambiato per la sua astronave. La creatura continuava ad avanzare verso dove si trovava, anche più veloce ora, con atteggiamento aggressivo: mentre Æsper, mantenendo il sangue freddo nonostante la paura, tirava fuori dalla tasca la pistola, poté così notare meglio il suo corpo, irto di radi peli, e la grossa sua testa, con due occhi enormi ed assolutamente malvagi, due lunghi tentacoli rigidi ed una bocca grande e terribile, caratterizzata da due grosse chele dall’aria micidiale. Ora l’animale lo stava proprio caricando, emettendo un ruggito alto e ferino; l’esploratore però non si fece prendere dal panico, prese con calma la mira al centro degli occhi della creatura e poi sparò. Lo colse in pieno, ma l’essere non sembrò risentirne, diventò anzi ancor più agitato e furibondo ed arrivò quasi ad agguantare Æsper, che riuscì a schivarlo per un pelo, rotolando poco lontano, per poi rialzarsi e sparagli di nuovo al fianco. Il proiettile lo beccò ad una delle sue zampe, al che il mostro inarcò la schiena, gemendo di dolore.
“I piedi sono il suo punto debole!” realizzò in un attimo l’esploratore, cominciando a bersagliare le altre zampe dell’animale: in un momento gli mise fuori uso l’intero lato, e quando esso cercò di scuotersi e di continuare l’attacco, poté fare lo stesso con le gambe dall’altro lato.
 «Non te l’aspettavi, eh, bastardo?» gli urlò Æsper sfogando la tensione accumulata durante lo scontro, mentre il bestione ormai abbattuto al suolo rantolava in maniera pietosa. L’esploratore si avvicinò per finirlo quando con la coda dell’occhio notò un movimento provenire dal suo fianco: fece giusto in tempo a voltarsi per vedere un secondo mostro, simile all’altro, spuntare dall’intrico della foresta, prima che le sue chele lo afferrassero e lo tirassero su in alto, cominciandogli a stritolargli le ossa. Æsper cacciò un urlo di sorpresa e di terrore, poi le fauci si aprirono e si chiusero di nuovo, e tutto sparì nell’oscurità.

«Ma’, vieni qui! Fai presto!» strillò Andrea. Un minuto dopo, sua madre arrivò in giardino trafelata: doveva essere corsa giù dal primo piano della casa.
«Che diavolo succede? Perché hai urlato? Spero tu abbia un motivo valido, giovanotto, mi hai spaventato!»
«Guarda Lucky! Ha qualcosa di strano addosso!» disse il ragazzo indicando il suo cane nella cuccia.
«Cosa, quella roba lì? Non è niente, è solo una formica, di quelle rosse, non vedi?»
«Così grande, una formica rossa? E poi non si muove!»
«Eh, certo! Prima a Lucky ho dato l’antipulci, avrà ucciso anche quella!»
«Mi sembra strana lo stesso.»
«In ogni caso, ora gliela togliamo di dosso, quindi problema risolto» concluse la madre, allungando la mano. Le sue dita, così grandi e forti in proporzione, stritolarono così la navetta di Æsper e la gettarono lontano, cancellando ogni residua traccia del passaggio del minuscolo esploratore di Erthæ sulla Terra.

martedì 9 dicembre 2014

Mi dispiace...

Manco a farci apposta, i dolori di cui per la prima volta ho raccontato lo scorso martedì questa settimana si sono fatti pure peggiori,  a causa di un paio di accorgimenti che ho provato per renderli più sopportabili durante la notte e che invece hanno avuto esattamente l'effetto contrario. Di conseguenza, negli ultimi giorni ho sofferto fortemente d'insonnia, e proprio in seguito a ciò non ho potuto preparare a dovere il racconto che nei miei piani doveva uscire oggi. Sono molto dispiaciuto, ma questa settimana non riesco a postare altro che queste poche righe. Scusatemi, e mettetevi in attesa: la settimana prossima il nuovo racconto sarà online, promesso!

martedì 2 dicembre 2014

Italiani e diffidenza medica

Negli ultimi giorni uno degli argomenti di cui più si parla, nella blogosfera e sui social network, è la sentenza del tribunale di Milano che ha assegnato un vitalizio ad un ragazzino autistico riconoscendo la causa della sua malattia nella vaccinazione da lui fatta, nonostante tale tesi sia stata smentita ormai dalla comunità internazionale ed il medico che l'ha formulata sia stato condannato al carcere per truffa in Inghilterra. E' questo solo l'ultimo di una lunga serie di casi di antiscienza medica a salire alle cronache, specie negli ultimi tempi, in cui la diffidenza verso la cosiddetta "medicina ufficiale" sembra essere giunta ai suoi massimi livelli. Qual è però la causa di questo fenomeno? E' tutta colpa del solito popolo italiano, così ignorante? In parte sicuramente si, ma per una volta l'ignoranza secondo me non è l'unica responsabile della situazione spiacevole. La mia opinione, seppur da profano, è che la colpa stia anche nella medicina in sé, o meglio in chi la pratica: ho maturato questa convinzione attraverso le mie esperienze personali, che ora vi racconto.

La storia è cominciata oltre due anni fa, quando all'improvviso, suonando la batteria, ho cominciato ad avvertire dolore ai polsi, come fosse un'infiammazione. Capita a volte, ma basta qualche giorno di riposo per farsi passare questo tipo di sofferenza: con me però non ha funzionato, anzi nonostante il riposo il dolore è divenuto pure più forte. Visto che col tempo non guarivo, ho cominciato a vedere specialisti di vario tipo (un paio di ortopedici, un fisiatra, un neurologo) ed ho affrontato molti esami, alcuni dei quali anche decisamente spiacevoli (tipo la elettromiografia, in cui ti infilano degli aghi nella pelle e poi ti danno la scossa, un dolore che auguro solo ai miei peggiori nemici), ma nulla è stato evidenziato, l'unica cosa a diminuire per tutte queste cure inutili, di cui alcune pure in istituti privati, è stato il "conto in banca". Risultato di tutto ciò: in due anni nessuno è stato capace di dirmi che cosa ho, ed i dolori sono diventati così forti da costringermi ad abbandonare quasi del tutto la batteria, nonché qualsiasi attività un minimo pesante per braccia o mani (anche stendere il bucato ormai è troppo per me); effetto di ciò è stata la depressione (la batteria era la mia vita, un tempo) e l'aver preso anche diversi chili, vista l'ormai totale assenza di movimento. E, altra conseguenza importante, ho ormai perso del tutto la voglia di fare qualcos'altro per la mia salute, essendo ormai arrivato a pensare che è meglio tenersi i dolori di dover sopportare anche la beffa di essere preso in giro dai medici e di fare altri esami inutili, spendendo altro tempo ed altro denaro per un nuovo odioso nulla di fatto.

Di chi è colpa tutto ciò? In parte probabilmente è anche colpa mia, del mio eccessivo essere prevenuto nei confronti dei medici già dall'inizio della storia, anche se con buona ragione, direi: come non ricordare quella volta in cui una cisti batterica batterica mi è stata curata come contrattura muscolare, per non parlare poi della mia semplice depressione curata con farmaci anti-schizofrenici di cui porto pesanti postumi purtroppo ancora ora, a distanza di anni. Dall'altra parte, però, come tutte queste esperienze, ed in particolare quella dei miei dolori attuali, mi hanno insegnato, anche i medici hanno le loro colpe, con la loro incompetenza (se fossero competenti, qualcuno avrebbe scoperto cos'ho), con la loro mancanza di professionalità (non sono pochi quelli che non si sono presentati all'appuntamento o hanno trovato scuse per non vedermi), ma soprattutto con la loro totale incapacità di qualsivoglia rapporto umano con il paziente: di tutti i dottori che ho visto, infatti, solo uno mi ha trattato come una persona, scusandosi anche di non riuscire sapere cosa avevo, gli altri invece mi hanno sempre trattato con distacco, come carne da macello, con poca o nulla importanza. E' proprio questo il peggio di tutta la vicende, essere stato trattato male e quasi preso in giro da chi invece avrebbe dovuto aiutarmi e prendersi cura di me.

Cosa dire, davanti a tutto questo? Uno con una cultura scientifica più che discreta, come modestamente io credo di essere, riesce a comprendere come la colpa non sia della scienza medica, uno strumento di per sé né buono né cattivo come tutte le altre scienze, quanto nei medici, che fanno questo lavoro per i soldi e per il posto fisso assicurato (com'era fino a qualche anno fa, almeno), e non per passione e per voglia concreta di aiutare le persone. Ma chi invece una cultura di questo tipo non ce l'ha? Sicuramente la rabbia di venire trattato come sono stato io si rivolge non contro i singoli medici, ma contro la medicina in generale: è proprio dall'estremizzazione di questa tendenza secondo me che nasce la fiducia che la gente (e pure la magistratura, a volte) dà a metodi alternativi totalmente privi di efficacia come Stamina o come quello di Tullio Simoncini, mentre la medicina "ufficiale" viene considerata il male, giusto uno strumento dei potenti o di "Big Pharma!!!1111" per vendere medicine o anche per qualche motivo più losco.

Insomma, la mia opinione è che la dissaffezione dell'italiano medio nei confronti della medicina, derivi anche da chi la pratica, che con la sua incapacità sia professionale che di calore umano, allontana la gente da sé e dal proprio mondo. La soluzione? Certo aumentare la cultura scientifica media una grossa mano la darebbe, ma credo anche che al sistema medico servano dottori più competenti ed appassionati per consentirgli di funzionare decentemente, cosa da cui per ora siamo lontanissimi. Insomma, se anche uno scientista accanito come me continua a frequentare gli ospedali solo perché quasi costretto dalla propria famiglia, qualcosa vorrà pur dire, no?