Questo è uno dei miei racconti brevi e fulminanti, di quelli che ritengo adatti alla pubblicazione su un blog: del resto, è anche più corto di un post medio - sì, anche uno di quelli del giovedì. L'ho scritto, appunto, a casa di Monica aspettando una cena, ispirato da uno spunto che mi ha dato proprio la famiglia di mia moglie - ma non dico di più. Forse è un po' stupido, ma non mi importa: buona lettura!
No, l'impresa del nostro eroe non è di dover sconfiggere questo drago (anzi, questa viverna). Ma forse è un'impresa ancora più ardua! |
«Ce l’ho… anf… ce l’ho fatta» rantolo, un filo di voce coperta dal fiatone. Lei non sembra avermi sentito, ma non importa: mi sorride, ed è questo che conta di più.
Vorrei ripeterle quel che ho appena detto, ma non ci riesco. Mi sento così affaticato che la gola è secca come il deserto, e le corde vocali sono paralizzate come se qualcuno le avesse pietrificate. Ma forse è normale: come potrei non stare in questo stato? E come potrei non soffrire dei vari dolori che sento al momento in spalle, braccia, gambe e schiena, dopo la faticosa impresa che ho appena portato a termine?
Ci ho messo tre giorni, ma mi sono sembrati tre interi anni. All’inizio, non mi pareva nemmeno possibile arrivare in fondo: sembrava come una montagna altissima, una parete verticale impossibile da scalare persino per il più abile degli alpinisti.
Poi però ho visto che, seppur passettino dopo passettino, riuscivo ad avanzare. E così, ho sentito crescere la fiducia dentro di me: questo mi ha consentito di andare avanti, di non mollare anche nei momenti peggiori, in cui ogni cosa sembrava volersi rivoltare contro di me. Ma mi sono lasciato alle spalle tutti questi momenti bui.
E così ora mi ritrovo qui, davanti a lei, che mi guarda col suo sorriso più bello. Ne valeva la pena: questo sorriso mi ripaga di tutto il tempo e di tutta la fatica che ho fatto. Dopotutto, l’ho fatto solo per lei.
«Hai visto… anf… amore? Ce… ce l’ho fatta!» ripeto, stavolta un po’ più forte.
«Bravo tesoro. Vuoi riposarti un po’? Ma non troppo, mi raccomando, che poi dobbiamo andare.»
«Andare? E dove?»
«Ma come dove? Da Ikea, no! Non possiamo mica partire troppo tardi, altrimenti chiude.»
«Di nuovo? Ma perché?» domando, la voce che mi diventa stridula mentre strabuzzo gli occhi.
«Come? Non avevi capito che quello che hai finito di montare era solo il primo scaffale? Ce ne serve almeno un altro, dai, altrimenti non abbiamo spazio per i tuoi dischi. Non credi anche tu?»
«No…» taglio corto. Carico quest’unica sillaba di tutta la disperazione e la delusione che in un attimo ha invaso il mio cuore. Dopo tutto il tempo e la fatica per costruire questo dannato mobile, mi tocca ricominciare tutto da capo.
È proprio vero quello che diceva mia nonna: la vita è un inferno pieno di dolore.
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