Eccoci qui, arrivati ormai al terzo appuntamento con il bilancio che stillo ogni anno, alla vigilia del terzo anniversario della fondazione di questo blog. Come può immaginare chi ha letto più o meno assiduamente il blog in questo 2011, è stato un anno pessimo per me, da ogni punto di vista. Ho perso la migliore amica che abbia mai avuto, nonché una storia che pensavo fosse a vita, sono stato ricoverato oltre due settimane in ospedale, sono passato dall'essere vicino a tutto ciò che bramo di più a non poterne essere più lontano. Certo, ho ritrovato amici che da tempo non vedevo, ma questo non può compensare la mia gigantesca perdita: un uomo sensibile e idealista come me ha sempre bisogno di una persona speciale, e purtroppo gli amici non possono aiutare in questo. Per questo sto ancora male come il primo giorno in cui mi sono lasciato, e quasi nulla servirà, ne ora ne mai, a farmi stare meglio, anche se penso che se succedesse un miracolo, forse potrei tornare felice come ero l'anno scorso (anche se era tutto di plastica, tutto finto, a posteriori posso dire che non c'era niente di vero, quella volta). A parte questo gigantesco fatto, che mi influenza, come immaginabile, tantissimo, quest'anno sono successe tante altre cose: alcune positive (la nuova impresa di Heavy Metal Heaven, la caduta di Berlusconi, l'annuncio mega-galattico del nuovo tour dei Sabbath originali), ma per la maggior parte le altre sono negative o peggio (meglio che io non le racconti, soffro già abbastanza di mio, e non ci tengo a divulgare i mali che devo subire, cosa che faccio già abbastanza con le mie poesie tristi).
Sul fronte più propriamente produttivo (notare l'eleganza di questa allitterazione :D), per colpa di cose che sono successe e di cui non ho avuto alcun controllo, ho prodotto poco, sia sul piano del mio romanzo "La Ricerca nell'Immenso", sia su quello dei racconti, ne ho scritti davvero pochi. Eppure, questo rimane l'anno, dei tre passati, in cui ho prodotto più post, oltre settanta, e questo è spiegabile col semplice fatto che essendo strato un anno particolarmente doloroso, ho prodotto un numero eccezionale di poesie tristi. Non so se questo sia un bene o un male, ai posteri l'ardua sentenza, io personalmente penso che alcune poesie che ho postato non siano all'altezza, per quanto ritenga altre poesie più che sufficienti, diciamo anche buone. L'anno scorso inoltre ho scritto, nel bilancio di allora, che mi sembrava molto buono quello che scrivevo: ad oggi, ho perso totalmente quella bella fiducia così duramente conquistata, per colpa di quello che è successo; o meglio, sono sicuro che quello che ho scritto nel 2010 sia buono, forse invece quello che ho scritto nel 2011 appena passato non era all'altezza. Spero di superare una parte (quella superabile) di problemi e tornare al meglio nel 2012, ma la vedo dura. Vi chiedo in anticipo scusa se non riuscirò a scrivere contenuti di qualità, l'anno prossimo, ma sappiate che sono solo un uomo con le proprie debolezze, e come tale non riesco, in certi momenti, in questo mio hobby, tutto quello che vorrei.
Vorrei ora concludere questo 2011 con l'auspicio che il 2012 sia un anno più felice di questo annus horribilis appena trascorso, per tutti, anche se probabilmente non lo sarà per me, ma sarà l'anno più squallido e schifoso mai visto (o almeno io parto con questa premessa). Quindi, un augurio da parte mia a tutti i miei lettori, che siano occasionali o abituali.
sabato 31 dicembre 2011
domenica 25 dicembre 2011
Buone feste!
Sia che festeggiate il Natale, sia che come me siate più realisti e festeggiate la festa del Sol Invictus e la nascita del dio egizio Horus, tanti auguri! Un augurio per un buon Natale e un felice anno nuovo a tutti i miei lettori.
giovedì 15 dicembre 2011
Come cavie in un laboratorio
Come promesso, ecco il mio nuovo racconto, scritto in tempi record, almeno per adesso, visto che non riesco a scrivere tanto e con la stessa spontaneità di prima. Tornando al racconto, è uno dei miei classici racconti di fantascienza, anche se rispetto ai miei soliti racconti ha forse una trama più lineare e meno "a sorpresa" (che questo sia un male o il racconto sia comunque riuscito sta a voi dirlo). Secondo me, pur non essendo il meglio della mia produzione, si legge comunque con piacere, e spero perciò che piaccia anche a tutti i miei lettori
Tutto ebbe inizio all’incirca negli anni venti del 2100. Era oramai una verità accettata dalla maggioranza della gente che il cosmo aveva un ordine razionale, e che il compito di descriverne il funzionamento fosse un esclusivo dominio della scienza, quella reale che si esprimeva nel il linguaggio della matematica. Quindi, nessuno più credeva alle varie teorie balzane e antiscientifiche a cui molti degli uomini del ventesimo e del ventunesimo secolo avevano dato la propria fiducia. In particolare, per fare un esempio, si erano spiegati gli avvistamenti degli UFO come fenomeni naturali oppure come sviste, e nessuno più credeva ai cerchi nel grano, che si sapeva essere realizzati dall’uomo, ne a chi affermava di essere stato rapito, che poteva essere o un esaltato in cerca di facile fama, oppure uno ammalato di una patologia psichica che implicava, tra gli altri sintomi, le allucinazioni, perciò un caso da ricoverare in un centro psichiatrico. Il paradosso di Fermi si spiegava ormai col fatto che l’equazione di Drake era troppo ottimista ad indicare in centinaia o addirittura migliaia il numero delle civiltà nell’intera galassia; di conseguenza, a quell’epoca si pensava, nell’opinione comune, che sarebbe stato estremamente improbabile che un’altra razza senziente si fosse sviluppata, pur nei miliardi di stelle della Via Lattea. Eppure, queste teorie stavano per essere sovvertite. In un giorno rimasto storico nella storia dell’umanità, il caldo ventidue luglio del 2126, una presenza nuova poté essere avvistata nei cieli di tutto il mondo. Sopra ogni zona di terra emersa (e in alcuni luoghi anche in mare) apparvero degli stranissimi ma giganteschi oggetti, dalla forma sferoidale e fatti completamente di lucido metallo grigio, che non potevano che essere di origine artificiale; e di sicuro non erano oggetti terrestri, ma dovevano essere proprio alieni. Ancora più strana fu la modalità loro arrivo: un secondo prima non c’erano, e quello dopo erano apparse come dal nulla, perfettamente in posizione a circa cento meta dal terreno, senza un rumore e senza nemmeno spostare l’aria. Si calcolò che in ogni luogo fossero apparse nello stesso istante, con una sincronia praticamente perfetta, quasi incredibile. Le reazioni della popolazione furono quasi in ogni caso composte: a parte qualcuno troppo impressionabile, che arrivò addirittura al suicidio, pressoché nessuno ne era spaventato. Si pensava, razionalmente, che se gli extraterrestri erano così sviluppati tecnologicamente da riuscire a superare l’immensità del cosmo, possibilità ancora lontana dalle capacità tecniche dell’umanità, dovevano essere avanzati anche dal punto di vista culturale. Di sicuro, non potevano essere venuti in una maniera aggressiva: nella concezione dell’epoca, infatti, sembrava veramente assurdo che una razza senziente avesse superato l’immensità del cosmo solo per venire a fare la guerra ad un’altra civiltà. Del resto, le guerre erano finite anche su un pianeta che era stato molto bellicoso in passato come la Terra; perciò non c’era motivo di allarmarsi inutilmente. Tuttavia, la curiosità nei confronti dei visitatori era tanta, perciò furono inviati tantissimi messaggi di pace verso le astronavi, in ogni lingua mondiale (nella speranza che gli alieni, superiori com’erano, riuscissero in qualche modo a comprendere) e anche in codice matematico, che era il più adatto, essendo una lingua universale. Passarono diversi giorni, con le astronavi che continuavano, completamente immobili, a levitare nelle loro posizioni; ma tutte le antenne puntate verso il cielo non captarono nemmeno l’ombra di una risposta, a parte il lieve rumore di fondo che le navi non potevano evitare di generare.
I giorni diventarono settimane, poi mesi, e ancora anni. Le sfere, senza muoversi, senza nemmeno evidenziare la benché minima traccia di attività artificiale, rimasero a levitare ovunque erano apparse. Quella staticità allarmava alcune persone; ma la maggioranza della popolazione conviveva bene con quel fenomeno. Eppure, non c’era uomo, sulla Terra, che non si fosse almeno una volta domandato che senso avesse quella silenziosa presenza. C’era chi pensava che fossero disabitate, una specie di satelliti artificiali, inviati sulla Terra con l’unico intento di studiarla ed analizzarla; molti, pur non spaventandosi per questo fatto e mantenendo l’ottimismo, si sentivano comunque a disagio per questo, perché percepivano loro stessi come se fossero un po’ delle cavie in un laboratorio. Altri pensavano che quel fenomeno potesse essere addirittura naturale, frutto di leggi fisiche mai sperimentate fino ad allora, ma che comunque esistevano, vista quell’evidenza. Gli anni passarono, ma tutti i tentativi di spiegare con certezza assoluta la presenza di quegli strani oggetti non andarono in porto. Si provò addirittura a penetrare dentro le astronavi, avvicinandosi dagli elicotteri; ma non c’era alcuna apertura, gli sferoidi erano completamente lisci; ne si pensava di aprire un varco attraverso lo scafo, azione che poteva venire fraintesa come un atto violento, scatenando un malinteso che l’umanità non era disposta a sopportare. Così, il tempo passò, ma nulla cambiò, e nulla accadde.
Il ventidue luglio del 2137, undici anni esatti dopo la comparsa delle astronavi, sembrava un giorno come un altro: eppure, qualcosa stava per accadere. Alla stessa ora (sempre precisa al microsecondo) in cui gli sferoidi erano apparsi, senza preavviso e senza un rumore essi si misero in moto attraverso l’aria, salendo e spostandosi all’unisono, uscendo dall’atmosfera terrestre, e allontanandosi parecchio. Nel giro di un’ora, si disposero in una griglia precisa, in modo da essere omogeneamente distribuiti su tutta la superficie, terrestre o marina che fosse, e ad un’altezza che non era più di cento metri, ma di quasi trecentomila chilometri, quasi la distanza Terra-Luna. Ancora una volta, i terrestri provarono a comunicare con le navi, cercando una spiegazione a quel nuovo fenomeno, ma come sempre non ebbero risposta. Eppure, qualcosa stava per succedere: appena furono tutte in posizione, sempre con una coordinazione straordinariamente precisa, nella parte inferiore si aprì un portello, che prima era nascosto. Da lì, discese improvvisamente un fascio di luce ad alta energia. Gli uomini non si accorsero nemmeno che stavano evaporando, tanto fu rapido l’effetto dei laser, nemmeno ebbero tempo per aver paura: e in pochi centesimi di secondo, la Terra venne completamente vaporizzata, dalla sua superficie fino all’interno del nucleo, e non ne rimase che una nube di pulviscolo, il quale si espanse in tutte le direzioni.
La Terra non c’era più, era stata spazzata via completamente, ma alcuni sopravvissuti umani rimanevano sulla colonia di Marte, che era stato terraformato, e ospitava in quel periodo duemila persone circa. Dopo la scomparsa del pianeta madre, gli abitanti di Marte furono sconvolti e prostrati, tanto da non provare nemmeno ad approntare le difese; ma ebbero comunque la disperazione necessaria di comunicare con quei truci alieni, domandando loro il perché di quell’azione così turpe. A sorpresa, un messaggio venne inviato loro da una delle navette spaziali che ancora sostavano dove prima c’era il pianeta azzurro, in una lingua inglese non perfetta ma tuttavia alquanto comprensibile. I “marziani” fecero appena in tempo ad inorridire per il contenuto del messaggio: poi, in un attimo, nel loro cielo apparve lo stormo di navi nemiche, ancora perfettamente in formazione, e in pochi secondi tutto finì come sulla Terra.
Zig, figlio di Gig e di Trepo, venne duramente redarguito al comunicatore via cavo dal suo diretto superiore, il generale Baton, figlio di Haton e di Malkin. Perché aveva comunicato con gli umani? Eppure lo sapeva che i messaggi che arrivavano dalla Terra non provenivano da una presunta intelligenza superiore come la loro, ma erano una forma di comunicazione primitiva tra esseri non senzienti. Del resto, anche ammettendo che i terrestri fossero intellettualmente simili ai grovelliani, la situazione di crisi del pianeta Grovell non consentiva più la sussistenza di quell’esperimento. Quattro miliardi di anni prima, i grovelliani avevano introdotto tutti gli elementi chimici che consentivano la vita, come l’acqua e l’anidride carbonica, per sperimentare come i meccanismi dell’evoluzione potessero funzionare su un pianeta più radioattivo e particolare come era la Terra, e confermare quindi le leggi che i biologi potevano solo supporre, fino a quel momento. Eppure, da oltre venti anni terrestri a quella parte sul pianeta Grovell scarseggiavano quelle stesse materie prime, che erano fino ad allora stati sprecati e buttati via: l’acqua era così preziosissima e ancor di più lo era il carbonio di cui tanto i terrestri che i grovelliani erano fatti: e così, per sopravvivere a quella crisi, non c’era altro da fare che, dopo quattro miliardi di anni, terminare quel gigantesco esperimento e recuperare i preziosissimi elementi dal pianeta disintegrato. Eppure, per Zig non aveva senso distruggere anche il quarto pianeta di quel sistema: e avendo assimilato, in quegli anni, il linguaggio principale della Terra, si era sentito di spiegare a quelle entità inferiori, ma che nelle sue opinioni personali erano vagamente senzienti, ciò che avevano fatto. L’avrebbe pagata cara, quell’uscita dagli schemi che si era concesso: ma quello che non rischiava più di tanto, e piuttosto gli dispiaceva di più per quegli esseri che, pur essendo solo dei fantocci vuoti senz’anima, erano comunque una forma di vita in qualche modo affascinante; se non fosse stato per la crisi sarebbero stati da proteggere, come una specie rara. Eppure non si poteva fare altrimenti, purtroppo. Zig chiuse il calcolatore della sua postazione e si mise sulla via della plancia, per andare da Baton; proprio in quel momento, la nave si staccò dall’orbita solare, e saltò di nuovo nell’iperspazio con il suo prezioso carico di carbonio e d’acqua. Come essa, tutte altre le navi grovelliane, coordinate al microsecondo, sparirono dai cieli di quello che un tempo era stato Marte. Della Terra non rimaneva più nulla, nemmeno il ricordo.
Come cavie in un laboratorio
Tutto ebbe inizio all’incirca negli anni venti del 2100. Era oramai una verità accettata dalla maggioranza della gente che il cosmo aveva un ordine razionale, e che il compito di descriverne il funzionamento fosse un esclusivo dominio della scienza, quella reale che si esprimeva nel il linguaggio della matematica. Quindi, nessuno più credeva alle varie teorie balzane e antiscientifiche a cui molti degli uomini del ventesimo e del ventunesimo secolo avevano dato la propria fiducia. In particolare, per fare un esempio, si erano spiegati gli avvistamenti degli UFO come fenomeni naturali oppure come sviste, e nessuno più credeva ai cerchi nel grano, che si sapeva essere realizzati dall’uomo, ne a chi affermava di essere stato rapito, che poteva essere o un esaltato in cerca di facile fama, oppure uno ammalato di una patologia psichica che implicava, tra gli altri sintomi, le allucinazioni, perciò un caso da ricoverare in un centro psichiatrico. Il paradosso di Fermi si spiegava ormai col fatto che l’equazione di Drake era troppo ottimista ad indicare in centinaia o addirittura migliaia il numero delle civiltà nell’intera galassia; di conseguenza, a quell’epoca si pensava, nell’opinione comune, che sarebbe stato estremamente improbabile che un’altra razza senziente si fosse sviluppata, pur nei miliardi di stelle della Via Lattea. Eppure, queste teorie stavano per essere sovvertite. In un giorno rimasto storico nella storia dell’umanità, il caldo ventidue luglio del 2126, una presenza nuova poté essere avvistata nei cieli di tutto il mondo. Sopra ogni zona di terra emersa (e in alcuni luoghi anche in mare) apparvero degli stranissimi ma giganteschi oggetti, dalla forma sferoidale e fatti completamente di lucido metallo grigio, che non potevano che essere di origine artificiale; e di sicuro non erano oggetti terrestri, ma dovevano essere proprio alieni. Ancora più strana fu la modalità loro arrivo: un secondo prima non c’erano, e quello dopo erano apparse come dal nulla, perfettamente in posizione a circa cento meta dal terreno, senza un rumore e senza nemmeno spostare l’aria. Si calcolò che in ogni luogo fossero apparse nello stesso istante, con una sincronia praticamente perfetta, quasi incredibile. Le reazioni della popolazione furono quasi in ogni caso composte: a parte qualcuno troppo impressionabile, che arrivò addirittura al suicidio, pressoché nessuno ne era spaventato. Si pensava, razionalmente, che se gli extraterrestri erano così sviluppati tecnologicamente da riuscire a superare l’immensità del cosmo, possibilità ancora lontana dalle capacità tecniche dell’umanità, dovevano essere avanzati anche dal punto di vista culturale. Di sicuro, non potevano essere venuti in una maniera aggressiva: nella concezione dell’epoca, infatti, sembrava veramente assurdo che una razza senziente avesse superato l’immensità del cosmo solo per venire a fare la guerra ad un’altra civiltà. Del resto, le guerre erano finite anche su un pianeta che era stato molto bellicoso in passato come la Terra; perciò non c’era motivo di allarmarsi inutilmente. Tuttavia, la curiosità nei confronti dei visitatori era tanta, perciò furono inviati tantissimi messaggi di pace verso le astronavi, in ogni lingua mondiale (nella speranza che gli alieni, superiori com’erano, riuscissero in qualche modo a comprendere) e anche in codice matematico, che era il più adatto, essendo una lingua universale. Passarono diversi giorni, con le astronavi che continuavano, completamente immobili, a levitare nelle loro posizioni; ma tutte le antenne puntate verso il cielo non captarono nemmeno l’ombra di una risposta, a parte il lieve rumore di fondo che le navi non potevano evitare di generare.
I giorni diventarono settimane, poi mesi, e ancora anni. Le sfere, senza muoversi, senza nemmeno evidenziare la benché minima traccia di attività artificiale, rimasero a levitare ovunque erano apparse. Quella staticità allarmava alcune persone; ma la maggioranza della popolazione conviveva bene con quel fenomeno. Eppure, non c’era uomo, sulla Terra, che non si fosse almeno una volta domandato che senso avesse quella silenziosa presenza. C’era chi pensava che fossero disabitate, una specie di satelliti artificiali, inviati sulla Terra con l’unico intento di studiarla ed analizzarla; molti, pur non spaventandosi per questo fatto e mantenendo l’ottimismo, si sentivano comunque a disagio per questo, perché percepivano loro stessi come se fossero un po’ delle cavie in un laboratorio. Altri pensavano che quel fenomeno potesse essere addirittura naturale, frutto di leggi fisiche mai sperimentate fino ad allora, ma che comunque esistevano, vista quell’evidenza. Gli anni passarono, ma tutti i tentativi di spiegare con certezza assoluta la presenza di quegli strani oggetti non andarono in porto. Si provò addirittura a penetrare dentro le astronavi, avvicinandosi dagli elicotteri; ma non c’era alcuna apertura, gli sferoidi erano completamente lisci; ne si pensava di aprire un varco attraverso lo scafo, azione che poteva venire fraintesa come un atto violento, scatenando un malinteso che l’umanità non era disposta a sopportare. Così, il tempo passò, ma nulla cambiò, e nulla accadde.
Il ventidue luglio del 2137, undici anni esatti dopo la comparsa delle astronavi, sembrava un giorno come un altro: eppure, qualcosa stava per accadere. Alla stessa ora (sempre precisa al microsecondo) in cui gli sferoidi erano apparsi, senza preavviso e senza un rumore essi si misero in moto attraverso l’aria, salendo e spostandosi all’unisono, uscendo dall’atmosfera terrestre, e allontanandosi parecchio. Nel giro di un’ora, si disposero in una griglia precisa, in modo da essere omogeneamente distribuiti su tutta la superficie, terrestre o marina che fosse, e ad un’altezza che non era più di cento metri, ma di quasi trecentomila chilometri, quasi la distanza Terra-Luna. Ancora una volta, i terrestri provarono a comunicare con le navi, cercando una spiegazione a quel nuovo fenomeno, ma come sempre non ebbero risposta. Eppure, qualcosa stava per succedere: appena furono tutte in posizione, sempre con una coordinazione straordinariamente precisa, nella parte inferiore si aprì un portello, che prima era nascosto. Da lì, discese improvvisamente un fascio di luce ad alta energia. Gli uomini non si accorsero nemmeno che stavano evaporando, tanto fu rapido l’effetto dei laser, nemmeno ebbero tempo per aver paura: e in pochi centesimi di secondo, la Terra venne completamente vaporizzata, dalla sua superficie fino all’interno del nucleo, e non ne rimase che una nube di pulviscolo, il quale si espanse in tutte le direzioni.
La Terra non c’era più, era stata spazzata via completamente, ma alcuni sopravvissuti umani rimanevano sulla colonia di Marte, che era stato terraformato, e ospitava in quel periodo duemila persone circa. Dopo la scomparsa del pianeta madre, gli abitanti di Marte furono sconvolti e prostrati, tanto da non provare nemmeno ad approntare le difese; ma ebbero comunque la disperazione necessaria di comunicare con quei truci alieni, domandando loro il perché di quell’azione così turpe. A sorpresa, un messaggio venne inviato loro da una delle navette spaziali che ancora sostavano dove prima c’era il pianeta azzurro, in una lingua inglese non perfetta ma tuttavia alquanto comprensibile. I “marziani” fecero appena in tempo ad inorridire per il contenuto del messaggio: poi, in un attimo, nel loro cielo apparve lo stormo di navi nemiche, ancora perfettamente in formazione, e in pochi secondi tutto finì come sulla Terra.
Zig, figlio di Gig e di Trepo, venne duramente redarguito al comunicatore via cavo dal suo diretto superiore, il generale Baton, figlio di Haton e di Malkin. Perché aveva comunicato con gli umani? Eppure lo sapeva che i messaggi che arrivavano dalla Terra non provenivano da una presunta intelligenza superiore come la loro, ma erano una forma di comunicazione primitiva tra esseri non senzienti. Del resto, anche ammettendo che i terrestri fossero intellettualmente simili ai grovelliani, la situazione di crisi del pianeta Grovell non consentiva più la sussistenza di quell’esperimento. Quattro miliardi di anni prima, i grovelliani avevano introdotto tutti gli elementi chimici che consentivano la vita, come l’acqua e l’anidride carbonica, per sperimentare come i meccanismi dell’evoluzione potessero funzionare su un pianeta più radioattivo e particolare come era la Terra, e confermare quindi le leggi che i biologi potevano solo supporre, fino a quel momento. Eppure, da oltre venti anni terrestri a quella parte sul pianeta Grovell scarseggiavano quelle stesse materie prime, che erano fino ad allora stati sprecati e buttati via: l’acqua era così preziosissima e ancor di più lo era il carbonio di cui tanto i terrestri che i grovelliani erano fatti: e così, per sopravvivere a quella crisi, non c’era altro da fare che, dopo quattro miliardi di anni, terminare quel gigantesco esperimento e recuperare i preziosissimi elementi dal pianeta disintegrato. Eppure, per Zig non aveva senso distruggere anche il quarto pianeta di quel sistema: e avendo assimilato, in quegli anni, il linguaggio principale della Terra, si era sentito di spiegare a quelle entità inferiori, ma che nelle sue opinioni personali erano vagamente senzienti, ciò che avevano fatto. L’avrebbe pagata cara, quell’uscita dagli schemi che si era concesso: ma quello che non rischiava più di tanto, e piuttosto gli dispiaceva di più per quegli esseri che, pur essendo solo dei fantocci vuoti senz’anima, erano comunque una forma di vita in qualche modo affascinante; se non fosse stato per la crisi sarebbero stati da proteggere, come una specie rara. Eppure non si poteva fare altrimenti, purtroppo. Zig chiuse il calcolatore della sua postazione e si mise sulla via della plancia, per andare da Baton; proprio in quel momento, la nave si staccò dall’orbita solare, e saltò di nuovo nell’iperspazio con il suo prezioso carico di carbonio e d’acqua. Come essa, tutte altre le navi grovelliane, coordinate al microsecondo, sparirono dai cieli di quello che un tempo era stato Marte. Della Terra non rimaneva più nulla, nemmeno il ricordo.
venerdì 9 dicembre 2011
Esistenza Negativa I - Il passato
Sto lavorando a diversi racconti, e spero di postarne uno entro la fine dell'anno. Intanto però, oltre a quei progetti ne ho un altro, ossia un poema dal titolo, appunto, "Esistenza Negativa", decisamente più lungo delle mie solite poesie. Io lo chiamo, in contrapposizione ai poemi epici, un poema patetico, nel senso originario del termine, che deriva da pathos, ossia sofferenza. Il poema come lo ho pianificato ha quattro canti, questa qui è solo il primo, mentre gli altri li posterò man mano che li finisco (ma gli ultimi due sono ancora in alto mare). Nient'altro, se non spero che questo lungo poema possa piacervi.
Primo canto - il
passato
Davanti ad
un bianco
Schermo di
computer me ne sto
E pesco perle
di dolore
Dal profondo
della mia anima
Per farne un
poema non epico
Ma alquanto patetico
invero.
Sono stanco,
oh certo
Molto stanco
e anche stufo
Di questa
dura vita di dolor
Che non
riesco a controllare
Come vorrei,
né mai
Ci sono
veramente riuscito
E per questo
me ne sto solo
Come sempre
senza nessuno
In un angolo
della mia camera
A vegetare
tristemente
Senza senso
, sol col computer,
E a
ricordare il tempo andato.
Una vita
certo eroica
E’ stata la
mia, in passato
Tanti anni
epici, sicuro,
Ho vissuto,
anche se mai
L’amor, mio
sogno più grande
Si avverò
davvero;
Anzi, da
quel punto di vista
Due
gigantesche delusioni
Ho avuto, da
due persone
Amate da me profondamente
Che in un
modo o nell’altro
Non mi hanno
ricambiato.
La prima,
quando sol quindici
Anni avevo,
e la sfortuna
O forse il
fato, chi lo sa,
Mi fece
innamorare di colei
Che era la
mia migliore amica
Come spesso
succede:
Ma lei solo
come amico
Mi vedeva, e
chissà cosa
Avrà pensato
di me;
Fatto sta
che mi ha abbandonato
A me stesso,
da un dì all’altro
Lasciandomi
triste e rabbioso
E per anni,
ed anni ancora
Mi trascinai
col male addosso
Camminando
le strade della vita
Con sommo
scoramento, solo
E tanta
rabbia dentro di me
Verso il
mondo tutto
Certo,
scoprii così un amor nuovo,
Quello per
il prezioso metallo,
La musica
del mio cuore
Che mai mi
abbandona;
Ma anch’esso
non poteva riempir
Il buco che
ho nell’anima
Ma il tempo
passava
E io pensavo
che, col tempo,
Il male
sarebbe scomparso;
E arrivai a
credere che il dolore
Era ormai
lontano da me,
Che folle son
stato, santo cielo!
Così per
compensare
Il vuoto che
sentivo dentro
Dopo tanto
tempo da quando
Il cor mio
fu spezzato
Andai ancora
alla ricerca
Di una nuova
esperienza
La seconda
volta, così arrivo,
Come l’altra
volta questa,
Cominciai a
provare di più
Che il solo
affetto
Per la mia
migliore amica:
E riuscii a
conquistarla, stavolta
All’inizio
fu così un idillio
Una
relazione perfetta;
Sembrava sì
solida
Da poter
durare per sempre
Ma era solo
un’illusione,
Un inganno
da parte sua.
Per queste
ragioni deleterie
Che nemmen
voglio rimembrar
Anche questa
storia finì
Un caldo
giorno di luglio
Lasciandomi
ancora peggio
Di quanto io
sia mai stato
E mi
ricoverarono
In una
specie di manicomio
Dove rimasi
due settimane
Poi uscii,
ma non per questo
Mi sentii
meno folle,
Al
contrario, ero impazzito.
E ancor oggi
mi sento pazzo
Di dolore e
di sofferenza
Che non
vanno via mai,
E non
lasciano una volta in pace
Questa mia
anima devastata
Dal peso
della solitudine.
Poi ripenso
ancor al passato
E rivedo
tante altre
Delusioni
cocenti
Da persone
che conobbi
E che in un
modo o nell’altro
Mi han
tradito inevitabilmente
Tanti uomini
e donne
A cui ho
dato fiducia
E che mi
hanno usato
Come uno
straccio vecchio
Che hanno
buttato
Quando più
non servivo.
E la mia
anima si è
Così ferita
sempre più
Tanto da
preferir quasi
Quest’orrida
solitudine;
E così ho
sofferto tanto
Dalla
nascita fin’ora.
lunedì 5 dicembre 2011
La secessione immotivata
E' con il massimo disprezzo che scrivo queste poche parole, ma sono rimasto quasi disgustato di quello che ho sentito in questi giorni al telegiornale. C'è una grande crisi, questo lo sappiamo tutti: ma un popolo, in queste circostanze, dovrebbe rimanere unito e combattere contro i tanti mali che (almeno qui da noi, in Italia) l'affliggono. Quello che alcune organizzazioni (in testa la Lega Nord) stanno facendo, blaterando insensatezze quali la secessione consensuale "sul modello della Cecoslovacchia" e altre fandonie del genere, è perciò assolutamente stupido e controproducente. Anche se divisi da dialetti e da abitudini, noi Italiani siamo comunque un popolo, che ci piaccia o meno, e come popolo dobbiamo comportarci; chi invece parla di dividerci, deve aprire gli occhi e vedere qual'è la realtà, perché la realtà è ben diversa dai vaneggiamenti idioti della Lega.
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venerdì 2 dicembre 2011
Insonnia V
Dopo delle brutte esperienze (che per fortuna sono terminate oggi, ufficialmente) con il sonno, mi sono sentito di scrivere una breve poesia sul mio stato d'animo di ieri, nonché l'ennesima poesia sull'insonnia, la quinta della serie. E' la mia solita poesia triste, spero che vi piaccia.
In questo limbo
Dove il guardo di dio
Alcun si è mai posato,
Me ne sto tristemente
Con gli occhi aperti.
Dormir non mi sovviene,
Ed è invero difficilissimo
Star sveglio così dopo
L’ennesima, ultima, notte
Passata senza sonno.
E così sono inebetito
Non riuscendo a far niente
Se non far passare
Il tempo lentamente
E provar la noia più grande.
sabato 26 novembre 2011
Aurora
Dopo diverse settimane di lavoro (almeno due, quelle passate dal mio ultimo post qui, peraltro di scarno contenuto) abbastanza intenso, sono riuscito ad ultimare il sesto capitolo del mio romanzo, dal titolo "Aurora". Sto incontrando più difficoltà del previsto, e penso ci vorrà ancora molto tempo per vederlo ultimato. Come al solito, chi volesse il capitolo come i cinque precedenti, può liberamente chiedermeli.
Aggiornamento: il capitolo è disponibile a questo indirizzo
Aggiornamento: il capitolo è disponibile a questo indirizzo
sabato 12 novembre 2011
Era ora!
Questo governo, che ci ha regalato perle quali "Eluana poteva avere ancora figli" e tante altre stupidaggini, discriminazioni nei confronti di stranieri, gay, non-cristiani e portatori di handicap, comportamenti moralmente ed eticamente sbagliati e cattivo gusto a più non posso, oggi, 12/11/11 è oramai finito (anche se non c'è ancora l'ufficialità, ma presto ci sarà). Sono contento, e con me milioni di italiani; e non poteva esserci notizia più bella, dopo quella della reunion dei Black Sabbath di ieri, per me. Era ora!
giovedì 10 novembre 2011
A quando la liberazione?
No, non mi sono dimenticato del mio blog, anche se è un po' che non ci posto; ma ho avuto un periodo intenso, e non ho potuto produrre niente da pubblicare. Ora ho scritto un paio di poesie, oltre ad aver quasi ultimato il sesto capitolo del mio romanzo e ad un paio di racconti che col tempo posterò. Per adesso, però, godetevi questa mia poesia triste, che non sarà nulla di che ma mi pare caruccia, pur essendo della solita tristezza che tanto mi affligge in questi mesi. Spero che vi piaccia.
A quando la liberazione?
Ogni dì che
passa
La mia anima
piange
E il mio cuor,
sì sensibile
Sempre più
greve sento
Tanto
disperato son
Che la notte,
prima di dormir
Invoco la
morte su di me,
Che mi
liberi dal dolore
E prenda la
mia esistenza
Che non
vivo, ma subisco
Ogni giorno
di più.
Ma ogni
nuova mattina
Mi
risveglio, e maledico
Questa vita
che non mi lascia
Riposare in
pace
lunedì 24 ottobre 2011
Immobile allo scorrere del tempo
La prima cosa che volevo esprimere con questo post era un sentito ringraziamento, verso tutti quelli che hanno reso possibile questo risultato: raggiunto (e superato) il numero 3000 di visite, in due anni e mezzo mi sembrano non poche, per un piccolo blog come il mio personale. Grazie davvero a tutti. In secondo luogo, vorrei esprimere il mood triste di queste brutte giornate (con tutto quello che sta capitando, a me ma soprattutto nel mondo, e basta aprire un sito qualunque di notizie per rendersene conto) con una poesia che ho scritto qualche tempo fa e che non parla di attualità, ma della mia "condizione". E' la solita poesia triste, spero che piaccia a tutti voi miei lettori.
Immobile allo scorrere del tempo
Davanti allo
schermo
Di un
computer, stanotte
Come
inebetito me ne sto
E guardo il
tempo scorrere
Tante storie
mi passano accanto
Bellissime,
di amicizia, di sorrisi,
Di felicità,
d’amore, ma è come se
Io fossi
dentro una bolla senz’età:
Da essa
vorrei uscire sempre,
Vorrei
conoscer gioia e vero amore
Ma per qualche
ragione che non so
Posso solo
rimanere qui a guardar
Così tante
ragnatele crescono
Su di me,
mentre invecchio,
Non
aspettando ormai altra cosa
Che la fine
ultima dei tempi
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Poesie tristi
sabato 22 ottobre 2011
I figli di Ade
Come promesso, ecco il racconto di cui parlavo tempo fa. Dopo aver letto questo post sull'ottimo blog "Fuffologi e creduloni.... Se li conosci non ti uccidono", ho ideato questo racconto, di fantascienza e con richiami steampunk. Spero sia di gradimento per i miei lettori.
I figli di Ade
Su Hold, il maggiore satellite del gigante gassoso Fold, viveva, tanto tempo fa, la razza cosciente degli Holdiani. Erano un popolo pacifico, unito tutto da una sola lingua, da una cultura e da alti valori che tutti condividevano. Erano molto avanzati, da tutti i punti di vista: avevano delle macchine a vapore che non inquinavano, basate sul surriscaldamento del metano da liquido a gassoso tramite reazioni chimiche che non contaminavano il pianeta in alcun modo, visto che lo scarto ultimo di produzione era la stessa ammoniaca così presente già della loro aria. Non erano però solo sviluppati sul profilo tecnologico, ma anche su quello culturale: nessun conflitto di classe vi era mai stato, il progresso scientifico aveva aiutato gli Holdiani a non essere più soggetti al lavoro manuale, e ora si dedicavano in ogni modo alla cultura, alla scienza e alle arti, in un fervore intellettuale enorme. Anche sotto il profilo sociale erano alquanto progrediti: non esistevano più guerre, tutti i conflitti si risolvevano con le parole, invece che con le armi. Non solo, nemmeno il crimine esisteva più: vivevano tutti in benessere, in pace e in equilibrio con la natura, e nessuno si sarebbe mai azzardato a compiere la benché minima mancanza di rispetto verso il prossimo. Il satellite Hold viveva così tanto in armonia con se stesso, che dai suoi abitanti veniva chiamato anche “Devilmen” ossia pianeta paradisiaco (da “devilm”, che in Holdiano era il paradiso, e da “en” che in quel linguaggio significava appunto “pianeta”).
Purtroppo, però, gli Holdiani vivevano in un sistema stellare ancora in pieno sviluppo, dove i pianeti esterni cambiavano orbita ad ogni incontro ravvicinato, causando molti problemi anche ai pianeti interni. Per esempio, il terzo pianeta interno, il roccioso Valen aveva subito un impatto da un grandissimo asteroide che gli aveva staccato una parte. la quale ora gli orbitava intorno come un anello di detriti, non dissimile da quelli che possedeva il pianeta Fold; e il quinto pianeta interno, Garen, era finito distrutto dalle innumerevoli collisioni e dall’influenza di Golen, il sesto pianeta ma primo dei gassosi, nonché più massiccio dell’intero sistema, diventando una gigantesca fascia di asteroidi intorno agli altri quattro pianeti rocciosi; e questa fascia, subendo sempre l’influenza di Golen, causava altri pericoli di impatto agli altri pianeti esterni. Erano tutti pianeti disabitati, certo, troppo caldi per avere metano allo stato liquido, e quindi inadatti alla vita, o almeno alla forma in cui si erano sviluppati gli Holdiani, che pure erano molto adattabili, e si trovavano bene lungo la loro orbita seppure fosse piuttosto eccentrica, lungo il suo percorso ellittico.
In un certo momento, la biologia degli Holdiani fece un balzo incredibile in avanti. Moltissimi esperimenti erano falliti, ma i biologi Holdiani credevano fermamente nella loro riuscita; e finalmente, nell’anno 8034 del loro calendario (dove un anno corrispondeva ad una rotazione del pianeta Fold intorno al sole), riuscirono a creare una forma di vita nuova, che non si era mai visto prima. Questo essere vivente, un semplicissimo batterio, non era basato sul silicio, come erano loro, ma sul carbonio. Per questo si pensava che quella forma di vita avrebbe potuto proliferare di più, in ambienti ricchi di quell’elemento, come potevano essere i pianeti rocciosi, dall’atmosfera di biossido di carbonio. Non solo: quegli esseri viventi avevano bisogno di un ambiente in cui la vita Holdiana non poteva sopravvivere, con temperature altissime e soglie di radioattività minime rispetto a quelle di Hold, e avevano bisogno di ossido di idrogeno invece che di metano, per raffreddarsi e per le loro funzioni biochimiche. Pochi anni dopo, tuttavia, vi fu, all’improvviso, un’altra la scoperta scientifica, astronomica in questo caso, che catturò l’attenzione di tutto il pianeta: ci sarebbe stato un nuovo passaggio ravvicinato tra Fold e Golen, causato dall’impatto di quest’ultimo con un asteroide gigantesco, grande quasi quanto uno dei pianeti rocciosi interni. In questo incontro ravvicinato, il sistema si sarebbe stabilizzato del tutto, portando tutti i pianeti esterni, da Golen fino al lontano Nelen, ad avere un’orbita quasi circolare; ma purtroppo questo avrebbe avuto il costo di mettere il pianeta Fold su un’orbita parabolica, che l’avrebbe portato a uscire dal sistema in via definitiva. La prospettiva era quindi terribile: per non morire, tutto quanto era presente sul satellite Hold doveva essere trasportato altrove, su una delle lune di Golen o in un luogo analogo. Purtroppo, però, non c’era abbastanza energia per farlo, l’unica forma di cui gli Holdiani disponevano era quella del vapore di metano, insufficiente per far volare nello spazio anche un solo Holdiano con velocità di fuga, figurarsi il trasferimento di un’intera civiltà o addirittura di un intero ecosistema. Eppure, qualcosa si poteva far uscire dalla densa atmosfera, anche se di scarsa massa, al massimo di peso equivalente a qualche chilo. I biologi più eminenti di Hold, venuti a conoscenza di questa possibilità, decisero di portare la nuova forma di vita fuori dal pianeta, e possibilmente depositarla in un luogo dove essa avrebbe potuto vivere da sola. C’era, nel sistema, un posto del genere, anzi due: Valen e Solen, due pianeti molto simili per caratteristiche. Sarebbero stata la culla ideale per quella nuova forma di vita, creata in laboratorio, e che necessitava quel calore che solo in un pianeta rovente come Valen, o uno poco più freddo ma con una densa atmosfera come Solen avrebbe potuto dar loro.
Il giorno prestabilito arrivò rapido, e due piccole navicelle a vapore si sollevarono piano da terra e superarono la velocità di fuga, dirette ai due pianeti con il loro preziosissimo carico. Poi, dopo pochissimi giorni Holdiani, Golen si avvicinò, e sparò via Fold dal sistema solare. Dopo qualche anno, il popolo Holdiano si preparò a ibernare se stesso e tutta la natura di Hold, in attesa di eventuali passaggi vicino ad altre stelle, una possibilità improbabile ma presente. Gli astronomi uniti ai biologi, però, in attesa dell’ibernazione, continuavano a guardare ancora al sistema solare interno, dove era stata spedita la vita, in attesa di vedere come si sarebbe evoluta la cosa. In diversi secoli, poterono ammirare la vita germogliare sia su Valen che su Solen; ma quest’ultimo venne colpito improvvisamente da una cometa, in un impatto che gli fece perdere gran parte della massa e per questo anche l’atmosfera; e la vita non poté che scomparire. Ma dall’altra parte, intorno a Valen, l’anello si era compattato in un grandissimo satellite, che ora proteggeva il pianeta dagli impatti degli asteroidi; e la vita lì proliferava benissimo, anche meglio che su Solen, come non si era mai visto in nessun luogo. Così, con la consapevolezza che la vita sarebbe proseguita almeno su un pianeta del sistema, gli Holdiani si ibernarono, in attesa di uno sperato disgelo dopo gli eoni di viaggio libero nello spazio che li aspettava.
La conferenza stampa era una di quelle epocali, la scoperta scientifica era immensa. Gli scienziati avevano lavorato per anni ed anni, ma infine erano riusciti a capire, attraverso simulazioni sempre più complesse, come aveva dovuto essere il sistema solare all’inizio dei suoi tempi. Dopo secoli, ora, finalmente la simulazione era praticamente perfetta; e la scoperta più grande era che c’era stato un altro pianeta gassoso nel sistema, che poi era stato espulso dal sistema da un incontro ravvicinato con Giove, e vagava ora per il cosmo, libero. A quel pianeta, gli scienziati avevano dato il nome di Ade: e anche se non si poteva osservare, essendo ormai, in quattro miliardi di anni, andato perduto nelle immensità dell’universo, era ormai una realtà scientifica il fatto che questo pianeta era esistito, nelle prime fasi di vita del sistema solare. Era una scoperta straordinaria, che eclissava anche quella, di qualche anno prima, che la vita in un certo momento era germogliata anche su Marte, prima che questo pianeta perdesse l’atmosfera. Eppure nessuno, nemmeno il più fantasioso dei biologi poteva sapere qual’era la verità: che la razza umana non si era sviluppata da batteri nati sulla Terra, ma che la loro forma di vita era figlia di un popolo molto più antico, gli Holdiani, che avevano donato loro la vita prima di un viaggio verso l’ignoto. Avessero potuto vedere cosa la loro forma di vita cellulare era diventata su quello che loro chiamavano Valen! Ne sarebbero stati orgogliosi, ma purtroppo erano sempre più lontani, ibernati e eternamente in viaggio nello spazio, sulla loro luna che, congelata, continuava a ruotare intorno al pianeta Ade, che loro avevano, eoni prima, chiamato Fold. Così il genere umano andò avanti, e proseguì il corso della sua storia, senza mai riuscire a capire da dove la vita fosse veramente venuta, per tutti i millenni successivi.
I figli di Ade
Su Hold, il maggiore satellite del gigante gassoso Fold, viveva, tanto tempo fa, la razza cosciente degli Holdiani. Erano un popolo pacifico, unito tutto da una sola lingua, da una cultura e da alti valori che tutti condividevano. Erano molto avanzati, da tutti i punti di vista: avevano delle macchine a vapore che non inquinavano, basate sul surriscaldamento del metano da liquido a gassoso tramite reazioni chimiche che non contaminavano il pianeta in alcun modo, visto che lo scarto ultimo di produzione era la stessa ammoniaca così presente già della loro aria. Non erano però solo sviluppati sul profilo tecnologico, ma anche su quello culturale: nessun conflitto di classe vi era mai stato, il progresso scientifico aveva aiutato gli Holdiani a non essere più soggetti al lavoro manuale, e ora si dedicavano in ogni modo alla cultura, alla scienza e alle arti, in un fervore intellettuale enorme. Anche sotto il profilo sociale erano alquanto progrediti: non esistevano più guerre, tutti i conflitti si risolvevano con le parole, invece che con le armi. Non solo, nemmeno il crimine esisteva più: vivevano tutti in benessere, in pace e in equilibrio con la natura, e nessuno si sarebbe mai azzardato a compiere la benché minima mancanza di rispetto verso il prossimo. Il satellite Hold viveva così tanto in armonia con se stesso, che dai suoi abitanti veniva chiamato anche “Devilmen” ossia pianeta paradisiaco (da “devilm”, che in Holdiano era il paradiso, e da “en” che in quel linguaggio significava appunto “pianeta”).
Purtroppo, però, gli Holdiani vivevano in un sistema stellare ancora in pieno sviluppo, dove i pianeti esterni cambiavano orbita ad ogni incontro ravvicinato, causando molti problemi anche ai pianeti interni. Per esempio, il terzo pianeta interno, il roccioso Valen aveva subito un impatto da un grandissimo asteroide che gli aveva staccato una parte. la quale ora gli orbitava intorno come un anello di detriti, non dissimile da quelli che possedeva il pianeta Fold; e il quinto pianeta interno, Garen, era finito distrutto dalle innumerevoli collisioni e dall’influenza di Golen, il sesto pianeta ma primo dei gassosi, nonché più massiccio dell’intero sistema, diventando una gigantesca fascia di asteroidi intorno agli altri quattro pianeti rocciosi; e questa fascia, subendo sempre l’influenza di Golen, causava altri pericoli di impatto agli altri pianeti esterni. Erano tutti pianeti disabitati, certo, troppo caldi per avere metano allo stato liquido, e quindi inadatti alla vita, o almeno alla forma in cui si erano sviluppati gli Holdiani, che pure erano molto adattabili, e si trovavano bene lungo la loro orbita seppure fosse piuttosto eccentrica, lungo il suo percorso ellittico.
In un certo momento, la biologia degli Holdiani fece un balzo incredibile in avanti. Moltissimi esperimenti erano falliti, ma i biologi Holdiani credevano fermamente nella loro riuscita; e finalmente, nell’anno 8034 del loro calendario (dove un anno corrispondeva ad una rotazione del pianeta Fold intorno al sole), riuscirono a creare una forma di vita nuova, che non si era mai visto prima. Questo essere vivente, un semplicissimo batterio, non era basato sul silicio, come erano loro, ma sul carbonio. Per questo si pensava che quella forma di vita avrebbe potuto proliferare di più, in ambienti ricchi di quell’elemento, come potevano essere i pianeti rocciosi, dall’atmosfera di biossido di carbonio. Non solo: quegli esseri viventi avevano bisogno di un ambiente in cui la vita Holdiana non poteva sopravvivere, con temperature altissime e soglie di radioattività minime rispetto a quelle di Hold, e avevano bisogno di ossido di idrogeno invece che di metano, per raffreddarsi e per le loro funzioni biochimiche. Pochi anni dopo, tuttavia, vi fu, all’improvviso, un’altra la scoperta scientifica, astronomica in questo caso, che catturò l’attenzione di tutto il pianeta: ci sarebbe stato un nuovo passaggio ravvicinato tra Fold e Golen, causato dall’impatto di quest’ultimo con un asteroide gigantesco, grande quasi quanto uno dei pianeti rocciosi interni. In questo incontro ravvicinato, il sistema si sarebbe stabilizzato del tutto, portando tutti i pianeti esterni, da Golen fino al lontano Nelen, ad avere un’orbita quasi circolare; ma purtroppo questo avrebbe avuto il costo di mettere il pianeta Fold su un’orbita parabolica, che l’avrebbe portato a uscire dal sistema in via definitiva. La prospettiva era quindi terribile: per non morire, tutto quanto era presente sul satellite Hold doveva essere trasportato altrove, su una delle lune di Golen o in un luogo analogo. Purtroppo, però, non c’era abbastanza energia per farlo, l’unica forma di cui gli Holdiani disponevano era quella del vapore di metano, insufficiente per far volare nello spazio anche un solo Holdiano con velocità di fuga, figurarsi il trasferimento di un’intera civiltà o addirittura di un intero ecosistema. Eppure, qualcosa si poteva far uscire dalla densa atmosfera, anche se di scarsa massa, al massimo di peso equivalente a qualche chilo. I biologi più eminenti di Hold, venuti a conoscenza di questa possibilità, decisero di portare la nuova forma di vita fuori dal pianeta, e possibilmente depositarla in un luogo dove essa avrebbe potuto vivere da sola. C’era, nel sistema, un posto del genere, anzi due: Valen e Solen, due pianeti molto simili per caratteristiche. Sarebbero stata la culla ideale per quella nuova forma di vita, creata in laboratorio, e che necessitava quel calore che solo in un pianeta rovente come Valen, o uno poco più freddo ma con una densa atmosfera come Solen avrebbe potuto dar loro.
Il giorno prestabilito arrivò rapido, e due piccole navicelle a vapore si sollevarono piano da terra e superarono la velocità di fuga, dirette ai due pianeti con il loro preziosissimo carico. Poi, dopo pochissimi giorni Holdiani, Golen si avvicinò, e sparò via Fold dal sistema solare. Dopo qualche anno, il popolo Holdiano si preparò a ibernare se stesso e tutta la natura di Hold, in attesa di eventuali passaggi vicino ad altre stelle, una possibilità improbabile ma presente. Gli astronomi uniti ai biologi, però, in attesa dell’ibernazione, continuavano a guardare ancora al sistema solare interno, dove era stata spedita la vita, in attesa di vedere come si sarebbe evoluta la cosa. In diversi secoli, poterono ammirare la vita germogliare sia su Valen che su Solen; ma quest’ultimo venne colpito improvvisamente da una cometa, in un impatto che gli fece perdere gran parte della massa e per questo anche l’atmosfera; e la vita non poté che scomparire. Ma dall’altra parte, intorno a Valen, l’anello si era compattato in un grandissimo satellite, che ora proteggeva il pianeta dagli impatti degli asteroidi; e la vita lì proliferava benissimo, anche meglio che su Solen, come non si era mai visto in nessun luogo. Così, con la consapevolezza che la vita sarebbe proseguita almeno su un pianeta del sistema, gli Holdiani si ibernarono, in attesa di uno sperato disgelo dopo gli eoni di viaggio libero nello spazio che li aspettava.
La conferenza stampa era una di quelle epocali, la scoperta scientifica era immensa. Gli scienziati avevano lavorato per anni ed anni, ma infine erano riusciti a capire, attraverso simulazioni sempre più complesse, come aveva dovuto essere il sistema solare all’inizio dei suoi tempi. Dopo secoli, ora, finalmente la simulazione era praticamente perfetta; e la scoperta più grande era che c’era stato un altro pianeta gassoso nel sistema, che poi era stato espulso dal sistema da un incontro ravvicinato con Giove, e vagava ora per il cosmo, libero. A quel pianeta, gli scienziati avevano dato il nome di Ade: e anche se non si poteva osservare, essendo ormai, in quattro miliardi di anni, andato perduto nelle immensità dell’universo, era ormai una realtà scientifica il fatto che questo pianeta era esistito, nelle prime fasi di vita del sistema solare. Era una scoperta straordinaria, che eclissava anche quella, di qualche anno prima, che la vita in un certo momento era germogliata anche su Marte, prima che questo pianeta perdesse l’atmosfera. Eppure nessuno, nemmeno il più fantasioso dei biologi poteva sapere qual’era la verità: che la razza umana non si era sviluppata da batteri nati sulla Terra, ma che la loro forma di vita era figlia di un popolo molto più antico, gli Holdiani, che avevano donato loro la vita prima di un viaggio verso l’ignoto. Avessero potuto vedere cosa la loro forma di vita cellulare era diventata su quello che loro chiamavano Valen! Ne sarebbero stati orgogliosi, ma purtroppo erano sempre più lontani, ibernati e eternamente in viaggio nello spazio, sulla loro luna che, congelata, continuava a ruotare intorno al pianeta Ade, che loro avevano, eoni prima, chiamato Fold. Così il genere umano andò avanti, e proseguì il corso della sua storia, senza mai riuscire a capire da dove la vita fosse veramente venuta, per tutti i millenni successivi.
lunedì 17 ottobre 2011
Sulle violenze di questi giorni
In questi giorni si sente spesso parlare delle violenze che l'altroieri hanno sconquassato Roma, violenze come in nessun altra parte in Europa, seppur anche lì gli "indignati" hanno manifestato. Vorrei dire la mia: son dalla parte degli indignati ma contro la distruzione dei negozi. Riesco benissimo a capire che ci possa essere rabbia, anche tanta, verso la corruzione e la decadenza dei costumi dei nostri politici e verso l'economia, anche io sono esasperato, e credo che moltissimi siano come me. Tuttavia, dar fuoco alle macchine, o sfondare le vetrine dei negozi non è certo una forma di protesta accettabile, come anche la violenza, che è in ogni caso inaccettabile. Nemmeno la violenza verbale dei politici, che pure è tanta, può giustificare la violenza vera, semmai si risponde ad essa con la stessa violenza verbale, contestando anche con rabbia ma senza distruggere. Per questo, non posso che schierarmi dalla parte di quelli che vogliono quei violenti in carcere, ma anche da quella di chi vuole, in maniera non violenta, contestare il potere di questi anni decadenti.
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martedì 11 ottobre 2011
Contro la legge bavaglio
Come ho scritto in un precedente messaggio, sono assolutamente contrario alla legge bavaglio, perché potrebbe essere deleteria per la nostra libertà di scrittura qua, in internet, e non solo: se verrà approvata, l'informazione non sarà più libera. Dite allora "no" alla legge bavaglio, firmate questa petizione, e mettiamocela tutta perché questi pochi politici ignoranti non condizionino più la nostra vita.
domenica 9 ottobre 2011
Inverno per sempre
Intanto che aspettate l'arrivo del racconto (sta arrivando, promesso), ho scritto un altro paio di poesie tristi, e stasera, tra nostalgia e noia, ne voglio condividere un'altra con voi. Questa mi è stata ispirata in parte dall'opera "Le Cronache del Ghiaccio e del Fuoco" di George R. R. Martin, che consiglio caldamente a tutti di leggere per la sua bellezza; e null'altro, se non che spero che non vi sia di peso continuare a leggere certe poesie ma anzi le apprezziate.
Inverno per sempre
“L’inverno
sta arrivando”
Diceva un
vecchio motto
Di una
casata ormai sbandata,
Spazzata
via, tanto che
Nessuno ne
serba il ricordo.
E così è
stata la mia vita,
Dopo una
breve estate,
Sì troppo
corta, invero,
Nel mio spezzato
cuore
Ormai l’inverno
è tornato
E sembra vi
resterà in eterno.
Ed ora solo
ghiaccio puro
E il freddo
più intenso
Qui dominano
senza confine.
Nulla più di
vivo c’è ormai,
Solo desolazione
e morte.
mercoledì 5 ottobre 2011
Un altro spinosissimo caso
Dopo Nonciclopedia, ecco che anche la Wikipedia italiana rischia di chiudere, e stavolta le motivazioni son ben più serie di quell'altra. Non mi addentrerò nel discorso politico (per quello basta entrare in Wikipedia), anche perché la mia abilità in quel campo è pressoché nulla, tuttavia so che esiste questo disegno di legge che prevede che ad ogni affermazione che un signor qualunque ritenga offensiva, bisogna, da parte di chi, blogger o altri, pubblicare una rettifica senza nemmeno la possibilità di replicare poi. E' una legge potenzialmente liberticida, e io sono assolutamente contrario. Invito quindi tutti i miei pochi lettori a schierarsi contro questo disegno di legge, in tutti i modi (anche firmando la petizione di www.petizionionline.it, che non posso linkare perché il sito è stranamente off-line). Insomma, Wikipedia non è un sito così importante (spesso ci si trovano cose poco autorevoli o addirittura dei falsi storici), ma bisogna salvarla come bisogna salvare il libero scrivere su internet, che è un diritto di ognuno.
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martedì 4 ottobre 2011
A proposito di Vasco Rossi e Nonciclopedia
Giusto ieri, la notizia della chiusura di Nonciclopedia ha fatto il giro del web. Vorrei dire anche io la mia su questa storia: la mia opinione è che la censura non è mai bella, mai, nemmeno per contenuti folkloristici e quasi sadici come quelli che aveva questa non-enciclopedia. Posso immaginare la frustrazione degli amministratori di quelle pagine, che si sono visti implicati in una causa legale ingiusta che li ha prima costretti a censurare la pagina dedicata a Vasco Rossi - questa pseudo rockstar che fa il ribelle solo per immagine e usa la legge quando nemmeno serve - e poi a chiudere definitivamente i battenti. Per questo, invito tutti i miei eventuali elettori a firmare questa petizione in favore di Nonciclopedia e - spero che già sia così - di smettere di ascoltare la scena mainstream di cui il "Blasco" fa parte.
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giovedì 22 settembre 2011
Ad un mio vecchio amico
Aspettando ancora il compimento di qualche racconto, posto l'ennesima poesia triste, che scrissi qualche settimana fa. Ne ho tante altre da divulgare, ma lo faccio col contagocce, sperando che questa situazione di tristezza orrenda se ne possa andare, prima o poi.
Ad un mio vecchio amico
Basta la
vista di un sorriso,
D’un atto
gentile, d’una carezza
Che uno
stato di triste ansia
Mi cade
addosso, cupo.
Struggimento,
mio vecchio amico
Ti odio più
che mai
Ma sei ormai
l’ultimo baluardo
Tra me ed un
orrendo baratro
Di male
assoluto ed eterno
Per questo
non ti lascio
Ma ti porto
sempre con me
Nel mio
cuore devastato
E triste
come non mai
mercoledì 14 settembre 2011
La finestra
In questi giorni le poesie tristi mi riescono proprio bene, e così mi ritrovo a pubblicarne abbastanza di frequente. Questa mi piace molto, perciò la pubblico oggi... spero che piaccia anche a voi.
La finestra
Guardando
fuori della finestra
Vedo un
mondo in bianco e nero
Bagnato
dalla luce intensa
Di un Sole vecchio
e stanco
Ed io me ne
sto rinchiuso qui
A
struggermi, a pensare
A quanto è
stato, ed a
Quanto nella
mia vita ho perso.
Poi vedo
nella finestra
Come
fantasmi dal mio passato
Gente
felice, che sorride
Che non
conosce il mio disagio
Allora il
mio scoramento
Si fa
mostruoso e bestialissimo
E nel mio
cuore c’è solo
Invidia e
melanconia.
Ma non odio
c’è in me
Solo dolore,
e così vado avanti
Senza più
un’anima gemella
Dannato per
sempre alla solitudine
domenica 11 settembre 2011
Undici settembre, dieci anni dopo
Volevo scrivere una poesia per commemorare questa ricorrenza, ma è meglio di no, non è il mio stile creare certe cose (vedi l'orrenda poesia sul terremoto che mi ha causato tanti problemi); tuttavia vorrei comunque commemorare le tremila vittime e sperare che una tragedia causata da una guerra tra concezioni di vita non avvenga mai più. Lo spero sinceramente, c'è troppo odio nel mondo, e posso solo auspicarmi che qualcosa cambi. Speriamo...
giovedì 8 settembre 2011
Ancora un piccolo cambiamento nei commenti
Ho cambiato di nuovo le opzioni della privacy per il blog, chiudendo il commento agli anonimi. Le mie motivazioni sono personali, e non intendo divulgarle.
mercoledì 7 settembre 2011
Il mio cuore
Intanto che lavoro al prossimo racconto, un progetto ambiziosissimo, nonché ai diversi capitoli del mio romanzo che però non è più semi-autobiografico, posto intanto qui una delle mie ultime poesie; ne ho scritte delle altre, ma le posto con calma. Ovviamente è una poesia triste, ma il mio umore è questo, in questi giorni Spero che vi piaccia, è un buon indicatore di come mi sento nonché uno scorcio profondo della mia anima.
Il mio cuore
Il mio cuore
E’ una landa
desolata
Piena di sofferenza
E di un
oceano di lacrime
Il mio cuore
È spezzato in
tanti pezzi
Così piccoli
che nessuno
Potrà mai trovarli
tutti
Il mio cuore
È ormai nero
come la pece
E non esiste
più luce
Che possa
scacciarne le ombre
Il mio cuore
E’
irrimediabilmente infranto
E batte
ormai stanco
Aspettando
triste la fine
giovedì 1 settembre 2011
Conversione
Ecco qui una nuova, ennesima, poesia triste, che ho composto ora. Non parla di una conversione in senso stretto, nel mio ateismo non cambia nulla: solo, volevo narrare questa grande conversione metaforica che sto vivendo in questo periodo. Spero che vi piaccia, miei pochissimi lettori.
Conversione
Una volta, tempo fa
Credevo in una divinità
Un Dio chiamato Amore.
Ma or, anche se il mio cuor
Ancora tanta speme ha,
Ho smesso di volerci creder.
Ora la mia unica Dea
Si chiama Morte, ed io
La prego tutti i giorni
Che mi porti via da qui,
Da questo mondo che ormai
Per me è diventato orrendo.
Conversione
Una volta, tempo fa
Credevo in una divinità
Un Dio chiamato Amore.
Ma or, anche se il mio cuor
Ancora tanta speme ha,
Ho smesso di volerci creder.
Ora la mia unica Dea
Si chiama Morte, ed io
La prego tutti i giorni
Che mi porti via da qui,
Da questo mondo che ormai
Per me è diventato orrendo.
venerdì 26 agosto 2011
Stairway To Hell
Dopo un mucchio di tempo, torno a scrivere un racconto dedicato ad una persona, perché finalmente ne ho trovata una degna di questo. Mi riferisco al mio maestro di batteria nonché ottimo amico Giorgio, a cui dedico questo racconto batteristico. E' uno dei miei classici racconti onirici, magari un po' manieristico ma che spero piaccia anche a voi miei altri lettori!
Stairway To Hell
Era una sera di fine estate, e Giorgio sedeva su una poltroncina fuori della sua sala prove, pensieroso. Il suo allievo sarebbe arrivato tra poco, e la lezione di batteria sarebbe cominciata allora, ma era bello godersi un po’ di pace là fuori, per non parlare del fresco che era una gioia, in quell’estate caldissima. Era un po’ strano dare una lezione dopocena: ma con tutti gli impegni che il giovane aveva, era impossibile fare altrimenti. Così, adesso si rilassava, gustandosi la calma prima dell’impegno che avrebbe avuto.
Ad un tratto, i suoi pensieri vennero interrotti da un improvviso rumore alle sue spalle, che lo fece quasi sobbalzare dalla poltroncina. Nella sala prove alle sue spalle le luci si erano accese, e soprattutto qualcuno suonava ora la batteria. Chi poteva mai essere? Il giovane se lo chiese: era il suo amico e allievo che era in qualche modo riuscito a non farsi vedere, e gli faceva uno scherzo? No, non poteva essere, lui era si bravo, ma a quei livelli non era ancora arrivato nemmeno lontanamente. Quello che stava suonando era un grandissimo batterista, come pochi ne aveva sentiti. Inquietato, ma anche molto curioso, Giorgio entrò nella sala prove. L’uomo alla batteria aveva i capelli lunghi, folte basette e un bel paio di baffoni: e la sua faccia non era proprio sconosciuta, al contrario. Non poteva essere, sarebbe stato troppo assurdo, eppure era davvero così: davanti a lui c’era proprio uno dei suoi idoli, il grandissimo John Bonham! Ma come era possibile che fosse vivo?

E poi cosa ci faceva lì? Sconcertato, ma anche in qualche modo affascinato, il giovane glielo chiese in italiano e in inglese, ma il batterista britannico non rispose nessuna delle volte, e si limitò ad alzarsi in piedi e a fargli cenno
di seguirlo. Giorgio lo seguì fuori della sala prove, e vide che tutto, intorno ad essa, era cambiato. Non c’era più il capannone nel quale la sala prove era ricavato, ne il grande spazio asfaltato davanti ad esso e nemmeno una traccia del panorama a cui era abituato. Vi era solo un’immensa pianura tutta uguale, ricoperta d’erba e illuminata quasi a giorno dalla sfolgorante
luce della Luna piena; e nel mezzo esatto della pianura, stava una grande collina, poco lontano da loro. Vicino a lui, Bonham si era avvolto in un mantello che gli copriva la testa con un cappuccio e arrivava fino a terra, e aveva tra le mani un lungo bastone, come fosse un pellegrino; nell’altra
stringeva invece una vecchissima torcia ad olio. Con essa, indicò la via al giovane, conducendolo attraverso la pianura e poi su per la collina. Giorgio salì rapido, e il batterista inglese gli mostrò che proprio in cima vi era un piccolo buco nel terreno, una specie di pozzo, di cui non si riusciva a vedere il fondo nonostante l’altezza della Luna in cielo. Con la lanterna, Bonham fece al ragazzo un cenno di entrarvi, e subito dopo sparì dentro al foro. Il giovane, dopo averci pensato giusto un poco, spinto da qualche forza che nemmeno lui capiva in pieno, fece un passo e cadde nel vuoto.
Per qualche minuto, il ragazzo andò giù in caduta libera, e la paura del vuoto che continuava ad aprirsi sotto di lui fu grande per tutto il tragitto; ma anche il buio totale che stava sperimentando era spaventoso. Poi rallentò, come spinto da una corrente d’aria, e infine si fermò in un posto di nuovo illuminato, che gli fece chiudere gli occhi. Socchiudendo le palpebre, intravide dei riflessi gialli e rossi e poi, quando si abituò a quelle condizioni di luce, poté finalmente vedere dove era capitato. Era una gigantesca sala rozzamente scavata nella pietra, illuminata da delle torce che a stento ne scacciavano l’oscurità. Cercò con gli occhi John Bonham, e lo vide: ma non era già più lui. Il suo volto si era trasfigurato in quello di un orrendo demone dalla orribile pelle verde, che lo guardava con un orrendo ghigno e degli occhi di fuoco, soddisfatto di averlo portato con se all’inferno. Giorgio era impietrito dalla paura, ma lottò quando il demone tentò di prenderlo per un braccio. Non c’era nulla da fare, però, la forza del finto Bonham era erculea, e cercando di divincolarsi il giovane venne trascinato avanti, nella caverna. Dopo un lungo tragitto, venne chiuso in un angusto luogo, scavato nella roccia. Guardandosi attorno, si vide in una cella dalle strette pareti; e l’apertura era chiusa da delle sbarre che non sembravano di comune metallo, ma di una sostanza verdognola. Giorgio provò a toccarle, e sentì la pelle ustionarsi: di scatto si ritirò, e colpì con una spallata il letto alle sue spalle. Con ancor più terrore, vide una figura emergere da sopra al letto: era una specie di scheletro nero, e di umano conservava solo gli occhi, pieni di terrore. Lo scheletro provò a parlargli, ma Giorgio non capiva ciò che diceva: e dopo qualche tentativo di comunicare a gesti, i due si isolarono. Ma il giovane aveva capito, in qualche modo arcano, che non poteva che essere un suo compagno di cella, in quelli che chiaramente erano gli inferi, dove lui, per qualche motivo che non sapeva, avrebbe dovuto scontare una prigionia; e anche se non capiva come faceva a saperlo, comunque sentiva che sarebbe stata un’esperienza terribile.
Il primo giorno fu lasciato piuttosto in pace, all’interno della cella; ma già il secondo dei piccoli ma forzutissimi demoni lo svegliarono di prima mattina, e lo condussero per il budello di roccia che era quell’inferno fino ad una sala, non più grande della sua cella. Qui, a forza lo rinchiusero in una strettissima camera, praticamente della grandezza di un armadio o peggio di una bara, che si apriva sul muro. Giorgio non aveva mai sofferto di claustrofobia, ma il suo terrore in quel momento era grandissimo; tuttavia non era che l’inizio. Pian piano l’ambiente si surriscaldò sempre più, finché una fiamma viva non eruppe dalla grata che costituiva il pavimento. Il giovane, completamente avvolto dalle fiamme urlò, mentre sentiva la pelle che si consumava lentamente sotto l’effetto del fuoco; e continuo ancora a ululare dal dolore, un dolore così intenso come non aveva mai provato, ma non c’era nessuno ad ascoltarle le sue atroci grida. Rimase in quella fornace per delle ore, infine ridotto ormai alle sole ossa eppure sempre terribilmente sofferente per colpa delle fiamme; poi gli spiritelli che l’avevano lì rinchiuso lo fecero uscire e lo trascinarono ancora, per ributtarlo in malo modo nella sua cella. Il giorno successivo non successe nulla, se non un fatto miracoloso: il suo corpo, ridotto all’osso, tornò a crescergli, non senza una grande quantità di dolori. Dopo un intero giorno tornò ad essere in carne come quanto era entrato in quell’inferno; la stessa cosa successe anche al suo coinquilino, ma i due non comunicavano molto, al contrario Giorgio si sentiva solo e sconsolato, come mai prima nella sua vita. Come si accorse presto, la ricrescita della carne non era qualcosa che durava, però: il giorno successivo venne di nuovo condotto al solito posto, in cui venne esposto di nuovo alla fiamma. Ora capiva il senso di quella crescita: era un modo per farlo soffrire ancora di più, la carne era terribile quando la sentiva, lentamente e dolorosamente bruciarsi, molto più delle sue ormai annerite e povere ossa. E così rimase a urlare per altre ore, mentre ancor di più il fuoco lo consumava ardente, distruggendolo nel corpo e nella mente.
Alla fine, Giorgio perse la cognizione del tempo, dei giorni che passavano, tra la cella e la sala delle torture. Dopo un giorno in cui veniva orribilmente bruciato e un altro di calma, ne arrivava sempre un altro della solita tremenda tortura, ed era sempre più terribile, ogni volta. Dopo tanto tempo, non seppe quanto, successe però qualcosa di nuovo. Mentre stava bruciando nella sala delle torture, pensando di essere al punto di pensare di star per impazzire dal dolore, all’improvviso le fiamme cessarono, e la porta del loculo in cui era si aprì. Davanti a lui, ora, nella sinistra sala delle torture, c’era una specie di portale di luce, come un passaggio dimensionale che risplendeva come una stella, così diversa dal balenare sgradevole delle torce di fuoco. Era forse quello il segno della sua redenzione, del fatto che aveva sofferto abbastanza? Non lo sapeva, ma non gli importava, e non voleva restare lì un minuto di più. Senza pensarci due volte, prese una boccata d’aria, chiuse gli occhi e si immerse nella luce.
Quando riaprì gli occhi, la luce era ancora intensa, ma erano i fanali di una macchina a colpirlo. Si spensero quasi subito, però, e dall’automobile scese un uomo: lo riconobbe, era il suo amico ed allievo! Fu allora che Giorgio si accorse di essere tornato nella zona industriale, nello spazio davanti al capannone, e tutto era come l’aveva lasciato prima di seguire il falso John Bonham. Era stato tutto un incubo orrendo, quindi… o forse no? Ma no, era stato tutto frutto della sua immaginazione. Mentre istruiva il suo amico, e poi ancora nei giorni seguenti pensò e ripensò a quell’esperienza. Concluse infine che nonostante non capisse il senso di quello che aveva vissuto, di ciò che la sua fantasia aveva partorito, era stata comunque un’esperienza importante, che l’avrebbe sicuramente aiutato nel prosieguo della sua vita. E così fu… in un modo o nell’altro.
lunedì 15 agosto 2011
Ciò che voglio
Tanto per passare il ferragosto in completa allegria, ecco una mia breve poesia composta qualche tempo fa. E' la solita poesia triste, e quindi è degna di rappresentare il mio stato d'umore di questo bel giorno. Tiratevi su, comunque: sto lavorando ad altri progetti, che spero presto di postare qui.
Ciò che voglio
Ciò che voglio
Non lo posso aver
Lo vorrò per sempre
E non l'avrò mai
E triste in eterno
Camminerò sulla Terra
Solo e sconsolato
mercoledì 10 agosto 2011
Sono tornato!
Sono stato circa una decina di giorni in ospedale, ora però sono tornato... domani devo rientrare per un controllo, ma credo che non sarò di nuovo ricoverato, e anche se succedesse non ci starei molto. Quindi, nei prossimi giorni conto di tornare a postare con più frequenza. E nulla, questa è solo una comunicazione per i miei lettori.
domenica 31 luglio 2011
Pianto e morte
Sono tornato dall'ospedale per un permesso, stasera tornerò lì, quindi non aspettatevi nuovi post oltre a questo... ma avendo scritto parecchio in ospedale, volevo condividere con voi questa mia poesia triste, sperando che mi leggiate ancora.
Pianto e morte
Io or ne sono certo
Ma forse da sempre so
Che sempre da solo
Sono, ero e sarò
Mai avrò amore
Mai, son condannato
A viver per sempre
Senza ciò cui anelo
Più di ogni altra cosa
Così la mia vita
Niente più che lacrime sarà;
Solo pianto, e morte
Mi aspettano in eterno
mercoledì 27 luglio 2011
Un cuore desolato
Come promesso pochi minuti fa, ecco la mia ultima poesia triste. Niente altro da aggiungere, spero che ai miei pochi lettori piaccia e che capiscano il mio stato d'animo.
Un cuore desolato
Un cuore desolato
Il mio cuore è un deserto
Di sabbia e sassi, desolato
Senza oasi, senza un sol albero
Una terra senza vita esso è.
Un fiore una volta vi nacque
Un fior bellissimo, unico
Che tutto il cuore si commuoveva
E più non sembrava un deserto,
Ma una foresta rigogliosa
Ma per colpa mia, sol mia,
Per mia fissazione orrenda
Il fiore si seccò e morì insieme
A quanto di più bello
La mia anima abbia mai partorito
E ora mi chiudo in me
Nel cuor di nuovo deserto
Una desolazione non magnifica
Ma di tremebonda solitudine
Pausa
Purtroppo, sono costretto a mettere in pausa Hand Of Doom, non so per quanto ma debbo, in quanto sono costretto a ricoverarmi in ospedale. Non voglio rendere pubblico nient'altro della mia malattia, voglio che si sappia solo che sarò, per qualche giorno, in ospedale. Non vi preoccupate, tornerò presto. Intanto, pubblico una poesia, tra un minuto, prima di andarmene.
lunedì 25 luglio 2011
Le volontà
Una poesiola triste che ho scritto di getto, ne sto scrivendo diverse in questi giorni e piano piano le pubblico... non è nulla di che, ma mi rappresenta bene il come mi sento, ed è molto sentita. A voi.
Le volontà
Io non voglio provare
Tutto questo scoramento
Non voglio sentire
Le ansie che mi martellano
E mi bruciano la testa
Non voglio più stare
In un mondo così orrendo
In cui tutti mi remano contro
E non voglio più sentire male
Dentro, nel cuore.
Voglio solo non sentire più
Voglio solo scomparire
Senza più soffrire così
E senza starci male:
Voglio solo svanire nel nulla
sabato 23 luglio 2011
Di nuovo solo...
Non voglio parlare dei miei affari privati, ma volevo solo condividere con i miei lettori (anche se non ne ho, penso non più) il dolore che provo per la rottura con Manu. E' stata una storia bellissima, e ora che è finita è orribile... ecco, solo queste poche parole volevo dire, per ritirarmi poi di nuovo nella mia somma tristezza privata.
martedì 19 luglio 2011
Olocausto #2
Dopo tanto tempo che non postavo, torno con un mio racconto. Sono stato un po' combattuto se pubblicare o no questo racconto, non sono sicuro sia all'altezza di altre mie produzioni. Comunque, alla fine ho deciso di farlo, quindi ecco qui il nuovo arrivato. E' una storiella morale che parla di alcune cose che ho vissuto in passato, cose che hanno toccato la mia sensibilità, e che mi hanno portato a questa amara riflessione sulla poca profondità del genere umano, a parte poche singole persone. Spero comunque che sia di gradimento per i miei lettori.
Cominciò tutto nel ventunesimo secolo. Visto dall’esterno, il mondo sembrava andare alla grande: dopo la crisi dei primi anni, l’economia decollò, e all’inizio degli anni venti sembrava che nulla, ormai, potesse intaccare il benessere dei paesi benestanti. Dall’altra parte, anche i paesi più poveri crescevano, e si arrivò, verso la conclusione del secolo, alla fine di ogni povertà, anche nel più povero di tutti i paesi esistenti nei cento anni precedenti.
In questo contesto economico, successe che ad un certo punto nacque nella vecchia Europa un movimento filosofico che presto si allargò a macchia d’olio in tutto il mondo. Era una corrente di pensiero eterogenea, che univa uomini e donne, persone giovani ed anziane, religiosi ed atei, in un unico modo comune di vivere la vita: una maniera magari non nuova ma affatto banale, che consisteva nella coltivazione dei sentimenti più puri, come amore, affetto, amicizia vera; ed inoltre in un modo di vedere le cose con intelligenza e sensibilità, al di là del modo “comune” di intendere le cose. “Sens”, così queste persone si chiamavano tra di loro e chiamavano il movimento, e volevano in questo modo autodefinirsi come le persone più sensibili. L’organizzazione, come era prevedibile, si rivelò sin dai suoi inizi come un’associazione molto idealista che tentava di cambiare la mentalità della gente, e più in generale il mondo, in modo da eliminare tutto ciò che, per le persone sensibili, era sofferenza; ed erano molte le cose contro le quali si battevano, poiché esse urtavano la loro particolare emotività e il loro modo di vivere le cose. Superficialità, scarsa intelligenza e poco tatto, questi erano i loro principali nemici: e ogni volta che un episodio grave legato a queste caratteristica accadeva, il gruppo interveniva, facendo sentire la propria contrarietà e dando una mano alle singole persone offese ed indifese.
Man mano che il movimento dei Sens si allargava, accogliendo sempre più persone riconosciute come sensibili, la sua visibilità, anche a livello internazionale, aumentava sempre di più. Ma con essa, diminuiva la presenza dei sensibili tra i non-sensibili, che comunque erano ancora in ampia maggioranza. Pian piano, dal nulla in queste persone, crebbe una sorta di repulsione verso il movimento dei Sens, che era visto come troppo esclusivista e snobistico. Il motivo vero era tuttavia un’invidia gigantesca che i non-sensibili provavano in quanto tali; ed essendo persone ovviamente molto egoiste (non avendo alcun tipo di tatto verso il prossimo), volevano quella capacità fantastica e meravigliosa di provare forti emozioni reali. Ci provavano in tutti i modi, spesso ricorrendo ad alcolici o alle droghe più pesanti: ma non riuscivano a provare nulla, che la loro profondità intellettiva e le loro capacità non erano sufficienti per trovare la vera felicità, che i Sens tanto decantavano. Col tempo, così, la distanza tra il mondo a parte dei sensibili e il resto della popolazione crebbe esponenzialmente. I primi certo non lo volevano, anzi, cercavano in tutti i modi di emanciparsi, visto che prima della creazione del movimento molti di loro erano spesso degli emarginati sociali. Ma la società tendeva sempre più ad ostracizzarli, ed essi erano sempre più visti come degli estranei quasi pericolosi. In questo clima si arrivò così al punto che al Governo Mondiale, quello che governava allora l’intero pianeta Terra, salì un partito di estrema destra che non aveva, orgogliosamente, membri Sens al suo interno, e che per racimolare voti aveva promosso idee come la separazione dei Sens dagli altri e l’inferiorità di questi ultimi dall’uomo comune, idee che attecchirono facilmente nella maggioranza insensibile del popolo. Il primo provvedimento fu di rendere pubblico l’elenco di chi apparteneva al movimento Sens ufficiale: e gli stessi Sens dovevano essere identificati come tali, tramite un braccialetto di metallo giallo con impressa la lettera S, che dovevano indossare sul braccio sinistro (sul destro per i mancini) e non potevano togliere ne nascondere sotto i vestiti.
Di tempo ne passò ben poco, prima che i diritti dei Sens furono fortemente limitati. Non potevano più abitare normalmente in città, ma dovevano rimanere in quartieri speciali, da dove non potevano uscire se non per causa di forza maggiore; e soprattutto non potevano avere più contatti umani con i non sensibili, “per evitare la contaminazione dell’aberrazione sensibile” ufficialmente. Il movimento Sens rispose sciogliendosi, cessando di esistere, sperando che in questo modo le persone sensibili, anche se non più in un gruppo che li rappresentasse, sarebbero però finalmente state lasciati in pace, ormai non più associate con la cattiva fama del gruppo. Ma ciò non avvenne, al contrario. Si mise a punto infatti un test psichico che determinava la sensibilità di una persona su una scala fissata in maniera scientificamente arbitraria; il test era obbligatorio per tutti quelli che raggiungevano o avevano già diciotto anni. Così, le persone sensibili venivano identificate, e venivano schedate anche quelle che non avevano mai avuto a che fare con il movimento Sens, che dalla sua era ormai passato alla storia. Col tempo, in questo modo, la qualità di vita delle persone sensibili continuò a peggiorare sempre più, fino alla naturale conclusione di questo processo deleterio. I quartieri riservati ai sensibili divennero praticamente ghetti circondati da mura; e poi degenerarono ancora di più, diventando dei piccoli Gulag, diffusi in tutto il mondo. Non erano campi di lavoro, però, dato che i prigionieri erano ritenuti assolutamente inutili, quasi carne da macello; ma erano campi di correzione, dove la gente veniva torturata psicologicamente, fino a rinnegare la propria natura umana, e solo allora si veniva scarcerati, essendo diventati attraverso l’immenso trauma abbastanza insensibili da non essere più considerati “sporchi esseri sensibili”. Non tutti però riuscivano a sopravvivere a quelle torture, al contrario: la maggior parte delle persone moriva poco dopo essere arrivata nei campi, che le torture erano un peso enorme da sopportare, tanto che la mortalità era addirittura dell’ottanta percento dopo la prima settimana; e il novantotto percento delle persone internate non faceva ritorno.
Passarono oltre dieci anni, e i criteri dei test per essere giudicati Sens diventavano sempre più restrittivi. Ormai ogni tipo di sensibilità era vista nell’opinione comune come una malattia mentale delle peggiori. Nessuno che avrebbe potuto parte dei Sens era più in circolazione nelle città da molto tempo, eppure ancora si trovavano persone che avessero un minimo di umanità, con caratteristiche quali l’umiltà o la generosità: ed esse venivano deportate nei campi di correzione, che col tempo si erano trasformati sempre più in campi di sterminio, senza più la possibilità di uscirne vivi iniziale. Dall’altra parte, i paletti per essere considerato “sensibile” divenivano sempre più stretti per colpa di politici sempre più zelanti, nonché interessati a far conoscere la propria non-sensibilità estrema. Così, nel giro di soli venti anni, la popolazione della Terra diminuì di mille volte, fino ad arrivare ad una piccola minoranza di sei milioni di esseri umani
Dopo all’incirca quindici anni dalla creazione dei campi di sterminio, nei cieli della Terra apparvero delle strane astronavi. Prima che gli uomini riuscissero a reagire, da essi discesero tante piccole navette, e nel giro di pochi giorni un’orda arrembante di extraterrestri, dalle forme più varie, conquistò il pianeta. Ciò venne fatto praticamente senza colpo ferire, dato che i loro armamenti si limitavano a stordire gli uomini e a bloccare ogni tipo di arma. Subito dopo, ogni terrestre venne trasferito, e l’umanità che fino ad allora aveva imperato fu divisa tra le prigioni dei vari pianeti civili che facevano parte della Confederazione Pangalattica. Nelle migliaia di processi penali che seguirono, sul pianeta giudiziario Tsajar IV, gli uomini capirono perché tutto quello era successo: non era un’invasione, quella aliena, o almeno non era l’intenzione di coloro che avevano preso la Terra. Quella era stata piuttosto una deportazione per un reato di massa, quale era stato il secondo olocausto conclusosi sul loro pianeta. Le varie razze aliene, ben più sensibili della razza umana di allora, avevano appreso dalle sentinelle orbitanti intorno alla Terra la triste storia di quel mondo. Dopo un primo eccidio, dovuto all’arretratezza culturale di quel pianeta le cose sembravano andare meglio, e la cultura era andata avanti fin quasi al livello minimo per far parte della Confederazione; ma poi il potere era andato a gente con mentalità e tatto veramente arretrati, e si era arrivati ad un nuovo olocausto, in tempi così brevi che i Confederati non avevano fatto in tempo a prendere le contromisure del caso. Quando finalmente lo avevano fatto, anche aggirando tutti i protocolli e i cavilli per l’emergenza, i campi di sterminio avevano già mietuto tutte le vittime che potevano e ne erano stati svuotati, non consentendo più alcun tipo di intervento se non, appunto, la carcerazione di massa per quel piccolo gruppo di orrende persone che era rimasto dall’umanità intera.
Mentre le navi carcerarie si dalla Terra per mandare a processo le persone che abitavano le megalopoli, sul pianeta successe qualcosa di inaspettato, che nemmeno i Confederati si aspettavano. Da grotte e caverne, nelle profondità delle foreste, uscirono fuori centinaia di sensibili, ex membri dello scomparso movimento Sens ma anche semplici uomini comuni senza particolari caratteristiche mentali, che da anni vivevano in clandestinità, sempre in fuga dalle terribili leggi delle grandi città. Finalmente, dopo tutto quel tempo, il centinaio di migliaia di persone che aveva una sensibilità fuori dal comune poteva vivere liberamente ed in pace. Così fecero, alla fine, ricostruendo una nuova civiltà più conscia e attenta alle esigenze di ognuno, di nuovo una democrazia reale, come da tempo sull’intero pianeta non si vedeva. Negli anni successivi, la Terra, ormai purificata dal morbo orrendo dell’insensibilità degli anni passati, e con una nuova consapevolezza verso il rispetto per la varietà immensa di emotività, venne ammessa nella Confederazione Pangalattica con tutti gli onori. Così la storia dell’umanità andò verso le stelle, e gli uomini andarono avanti sereni, ma senza mai dimenticare l’olocausto dei sensibili, ricordandolo con orrore e trasporto per sempre.
martedì 5 luglio 2011
Contro la censura arbitraria
Domani c'è l'approvazione del famigerato provvedimento dell'AGcom, che promette di oscurare siti esteri e di cancellare siti italiani solo sospettati di violare il copyright. Essendo blogger un servizio estero, di proprietà di google, non ci dovrebbero essere problemi, al massimo l'oscuramento si potrà aggirare usando un proxy. Tuttavia non ne sono del tutto sicuro, ma io continuerò a scrivere e a pubblicare qui, alla faccia della censura arbitraria che potrebbe esserci, e che i miei detrattori sono pronti a cogliere.
mercoledì 22 giugno 2011
Un'altra notte come tante altre
Dopo "una notte come tante altre", ho deciso di scrivere un altro racconto (o meglio, altri due, il terzo arriverà fra un altro po' di tempo) per fare una trilogia del sogno. Quindi, come per il suo predecessore, spero che questo racconto onirico sia di gradimento per tutti.
Un'altra notte come tante altre
Ancora una volta, quello era stato un giorno come tanti altri nella mia vita. Avevo lavorato molto ai miei sudati scritti, e avevo anche passato del tempo per studiare l’ormai odiosissima Analisi Matematica Uno. Ero stato però tantissimo con la mia amatissima ragazza Manu, e questo era stato davvero un bene, che aveva reso la giornata ottima, come sempre succede per merito suo. La sera era stata lunga, poi, visto che mi ero prefissato di guardare tutto Annozero: un’impresa ardua, visto che ero molto stanco dal giorno. Alla fine delle vignette di Vauro, la decisione di staccare e andare a letto era ben facile. Così, insieme a lei, mi sono preparato per la notte con la consapevolezza che da quel giorno ero soddisfatto. Dopo averle dato il bacio della buonanotte, mi ero sdraiato con i miei tappi nelle orecchie e la benda sugli occhi, e avevo lasciato andare i pensieri. Pensavo a nuove idee per i miei scritti, ma ascoltavo anche il mio cuore battere all’unisono con quello di Manu: e fu cullato da questo rassicurante doppio ritmo che, senza accorgermene, scivolai velocemente e profondamente nel magico mondo dei sogni.
Facevo parte della polizia, improvvisamente, e i miei superiori mi avevano affidato una missione di alto livello ben precisa: dovevo entrare in incognito in un carcere, che loro definivano “particolare”, per monitorare dall’interno la situazione, e per evitare una rivolta nel caso ci fosse stata. Così, una sera, entrai in galera. Mi accorsi subito che la cella era minuscola, non c’era nemmeno lo spazio per muoversi. Bisognava restare in piedi tra le sbarre e la parete posteriore, vicinissima al cancello, non c’era alcuna possibilità di movimento, come fosse una specie di loculo verticale; non essendo io certamente magrissimo, quasi non entravo in quello spazio angustissimo e claustrofobico. Già mi stavo pentendo di aver accettato quel lavoro, in quel momento: ma era solo la punta di un iceberg immenso fatto di maltrattamenti e di orrore.
Il giorno successivo, le guardie mi svegliarono molto presto la mattina, con un colpo secco nel basso ventre. Fu dolorosissimo, ma non potevo lamentarmi, altrimenti, in qualche modo sapevo, nuovi colpi sarebbero giunti. Tutti noi carcerati venimmo poi condotti di sotto, nel piano inferiore, dove erano le cucine: lì, dei cuochi cucinavano su una grande superficie metallica una specie di paella, mentre da una rampa piovevano nello stesso spazio tocchi di mortadella e altre cibarie. Il compito dei carcerati era suddividere le cose: la mortadella più dura e più invecchiata (a volte era addirittura ricoperta di muffa) e la paella con meno qualità andavano messi su una catena di montaggio che correva lì davanti, e che stato il nostro pranzo. La roba migliore, invece, la dovevamo appoggiare in alcuni piatti che scorrevano su un sistema di rulli collegato con un montacarichi, che portava il cibo di sopra, dove le guardie carcerarie facevano colazione con un’abbondanza di ottimo cibo. Il lavoro era massacrante, visti anche i secondini che non smettevano di sbraitarci contro. Io non avevo idea di doverlo fare, ero impreparato: la schiena mi faceva malissimo e solo a dover stare in piedi lì mi facevano male le gambe. Almeno, però, gli altri carcerati ce la mettevano tutta per rendersi l’un l’altro la vita meno difficile, e anche per aiutare me, nello specifico, e di questo ero rinfrancato. Fu parlando con gli altri che seppi cosa avevano fatto: erano praticamente tutti carcerati speciali. In quel mondo futuro, come bene sapevo, i mutanti erano diffusi, e spesso causavano problemi ai non mutanti, che si risentivano solo a vederli: perciò, la legge stabiliva che ogni mutante doveva essere un incarcerato speciale a vita, per non infastidire i normali. Nei giorni successivi, nei momenti in cui si stava insieme ai lavori, conobbi tanti mutanti: Hugo “Tre Gambe”, Harry, che aveva gli occhi da serpente, Lucy, che aveva tre occhi su tre antenne che le partivano dalla fronte, Jacob la Medusa, e tanti altri. In particolare però feci amicizia con la persona che occupava la cella accanto alla mia, un certo Billy, che sembrava praticamente normale, se non fosse che sotto alla maglia, sul busto e sulla schiena, nascondeva delle scaglie simili a quelle dei pesci che ricoprivano la sua pelle normale. Oltre a questo, Billy era anche una specie di capo per i reclusi, che ascoltavano le sue parole e ne erano sempre influenzati; a ragione, secondo me, visto che la sua intelligenza era sfavillante, ed il suo carisma, non lo nego, riusciva a contagiare anche me, in qualche modo.
Più il tempo passava, e più la mia voglia di denunciare quello che succedeva la dentro aumentava. I carcerati erano persone molto buone per quanto riguardava il comportamento, e non si ribellavano a tutti i soprusi che subivano, durante lo smistamento del cibo e tutti gli altri duri lavori che dovevano compiere ogni giorno. Anche io subivo continuamente le loro prepotenze, ma al contrario dei miei amici mutanti non riuscivo a incassare tutto quello senza risentirmi; e questo nonostante il trattamento per me fosse di lusso, essendo io un poliziotto in incognito, e gli altri fossero trattati peggio di animali da macello. Non c’era il pericolo di una rivolta, dato il loro carattere così pacato, non capivo come si poteva dubitare di questo fatto: ma comunque un reato c’era, ed era la crudeltà di quei membri della polizia giudiziaria. Perciò, cercai di contattare con delle lettere i miei superiori, e poi anche col telefono, ma mi fu impedito: le lettere venivano evidentemente eliminate prima di arrivare al destinatario, e l’accesso al telefono mi era interdetto dai secondini, che a ciò adducevano scuse addirittura assurde; e in me la rabbia saliva sempre più. Un giorno, un secondino picchiò violentemente Billy, che aveva fatto cadere un po’ di paella in terra: a quel punto non ci vidi più. La aggredii, e in men che non si dica ci ritrovammo ad essere rivoltosi. I mutanti, con Billy in testa, si fidarono di me seguendomi, e combattemmo con le guardie per riuscire ad evadere. I secondini erano però pesantemente corazzati e armati con dei grossi manganelli, così ci sconfissero facilmente, sedando la rivolta. Di questo però non ho alcuna memoria: ricordo solo una guardia che mi colpiva con una manganellata alla testa, e poi il buio più totale.
Mi risvegliai dentro alla mia cella. La grata era aperta, ma io ero fissato alla parete con dei fermi metallici, che mi legavano avambracci e gambe. Qualche piano più in basso, nel gigantesco atrio della prigione, vedevo un paio di carcerati che non conoscevo passeggiare per i corridoi sospesi, mentre molto più in basso si sentivano i suoni della cucina in funzione. Anche se non riuscivo a vedere con gli occhi cosa succedeva là sotto, ne avevo un’idea chiara, come se fossi stato laggiù: i secondini stavano, per colpa del tumulto che avevo aizzato io, tentando di cuocere vivi i miei compagni! E il primo che stava bruciando non poteva essere altro che proprio il mio migliore amico là dentro, il povero Billy! Chiesi ai due carcerati di venirmi a liberare, ed uno di loro lo fece. Lo ringraziai, e poi corsi di sotto, passando prima dal guardaroba, dove ripresi le mie cose. Quando entrai in cucina, le mani di Billy andavano di già a fuoco, mentre lui gemeva per il gran dolore. Le spensi frettolosamente, e poi tirando fuori il mio distintivo, arrestai in maniera ufficiale i secondini, con l’accusa di violenza aggravata. Come ultima volta, essi cercarono di usare la violenza per mettermi a tacere, ma io non ero stato incauto, e avevo chiamato rinforzi: e in quell’esatto momento, un intero squadrone di polizia fece irruzione nella cucina, mettendo le manette agli accusati e portandoli via.
Come andò a finire la storia? Io, dopo quella esperienza, dalla polizia, mi candidai per la camera dei deputati. Senza alcuno sforzo, venni eletto, e potei accedere all’aspirato parlamento. Il primo giorno lo ricordo bene, con tutte quelle persone vestite in maniera colorata, specie nella parte dell’emiciclo in quale sedeva il maggioritario Partito dei Tifosi di Calcio. Ma non ero lì per guardare lo spettacolo, anzi: nei mesi successivi testimoniai per lunghe sedute sulle sevizie che accadevano in quel carcere, e i miei monologhi diedero luogo a lunghe discussioni, con i deputati molto attenti ad ogni questione da me sollevata. Alla fine, la legge sui mutanti venne abrogata, e tutti i miei amici furono finalmente liberi di uscire dal carcere. Quel giorno, festeggiai a lungo il nuovo stato delle cose insieme agli amici appena usciti dalla struttura; ma per qualche motivo sentivo che quella storia era ormai finita, per quanto non capissi, in quel momento, il perché.
Era in effetti la fine, poiché mi sono svegliato alla fine della festa, sempre accanto a Manu, e guardando l’orologio mi sono accorto che erano le undici: tardi, ma fortunatamente era domenica, e quindi non ci furono problemi, e potei cominciare la giornata in maniera normale. Ripensando poi al sogno, mi sono accorto che non conoscevo nessuna delle persone che vi avevo incontrato; tuttavia, era molto piacevole la consapevolezza che se fossi stato davvero un poliziotto prima, e un parlamentare poi, avrei agito esattamente come ho fatto nel sogno, e questo pensiero mi ha dato la carica per la giornata che mi aspettava. E così, con questo stato d’animo buono, ho alla fine cominciato una nuova, normalissima, giornata.
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