giovedì 1 ottobre 2020

"Il mio nome è rosso" e un Nobel inspiegabile


Dal punto di vista letterario, l'estate che si è conclusa appena un paio di giorni fa non è stata bellissima, ma neppure scadente per me. Al contrario, mi è capitato di leggere diversi buoni libri e un paio addirittura eccezionali. Ma c'è stato anche un libro che mi ha lasciato così perplesso (per usare un eufemismo) che sentivo il bisogno di parlarne, anche se è passato oltre un mese dalla sua (faticosa) lettura. Sto parlando di Il mio nome è rosso di Orhan Pamuk

Autore turco tra i più famosi della sua nazione (forse il più famoso in assoluto), nel 2006 ha addirittura vinto il premio Nobel per la letteratura. Contando poi che Il mio nome è rosso è un romanzo storico, un genere che come ho già detto altre volte amo se fatto bene, mi ci sono avvicinato con curiosità. Ma già dopo qualche giorno di lettura, il mio entusiasmo era sparito del tutto.

Parliamo di un libro che, per molti versi, ricorda Il nome della rosa di Eco. Ma quando il romanzo dell'autore piemontese è senza dubbio un capolavoro, quello di Pamuk non ha nulla a che vedere col suo splendore né con la sua capacità di colpire a tanti livelli diversi

In parte forse è colpa dell'ambientazione: il tardo cinquecento è un momento storico affascinante, specie se invece della solita Europa siamo nella Istanbul ottomana. Peccato però che la storia non si concentri su intrighi di palazzo, sulle avventure di regnanti, o al contrario sulla storia di qualche popolano. Ma sulle vicende e (soprattutto) sul pensiero dei miniaturisti

Artigiani al servizio del sultano, al servizio di cui lavorano illustrando dei libri pregiati, lungo tutto il romanzo in pratica non fai altro che seguire le loro dispute filosofiche. Alcune sono anche comprensibili per occhi occidentali, ma altre sembrano del tutto senza attrattive - anche quando ti hanno spiegato la differenza tra i maestri di Herat e quelli di Tabriz, la cosa rimane interessante in una misura vicina allo zero. 

Il brutto di Il mio nome è rosso è però che questo è il problema minore. E anzi, l'universo dei miniaturisti, a modo suo, è l'unico elemento di fascino di un libro invece molto carente di qualsiasi appeal sotto ogni punto di vista. A partire dai personaggi: forse sono anche realistici, in un certo qual modo, ma io li ho trovati terribili. In primis per il fatto che tutti quelli che parlano - è un romanzo corale, ci sono molti punti di vista - si fanno mille masturbazioni mentali in ogni pagina. 

Io, che di mio sono già una persona piuttosto ansiosa, leggo libri per rilassarmi. Non certo per entrare nella frenesia mentale dei personaggi, che sono un continuo vomitare concetti su concetti, a macchinetta. Ma neppure questo è il peggio, come non lo è il fatto che dimostrino a tratti di essere del tutto consapevoli di essere personaggi di un libro - il che però non è sfruttato al meglio, anzi. Il lato davvero brutto del romanzo è che, quasi fosse uno scrittore alle prime armi, Pamuk non riesce a dare la minima caratterizzazione a questi personaggi, che sono quasi tutti intercambiabili

Di sicuro, lo sono i tre sospettati dell'omicidio che, in teoria (molto in teoria!), sarebbe al centro della trama. Scelti in maniera del tutto arbitraria tra diversi altri, nessuno dei tre ha una personalità ben definita. Come quasi nessun altro nel libro, compreso il protagonista, Nero. A parte il fatto che ha più ansie degli altri e sembra sempre immusonito, non ha nulla di particolare per cui poter spiccare

A parte qualche raro personaggio di contorno, tra quelli importanti solo la comprimaria femminile, Şeküre, è ben delineata. E... dopo averla conosciuta, ti ritrovi a preferire i personaggi anonimi! Şeküre è davvero una piaga: per tutto il libro, non fa che piagnucolare, prendere decisioni idiote (anche se tutti le dicono sempre quanto è intelligente e bella... insomma, Mary Sueküre!) e picchiare i suoi figli anche quando non hanno fatto niente di male. E in più di un'occasione è venuta a me, la voglia di tirarle un ceffone, per quanto si comporta da stupida - e io non sono certo uno che approva la violenza, eh. 

Di sicuro, non è un bel personaggio femminile, anzi. All'epoca probabilmente le donne non si potevano mostrare forti, questo è vero: tuttavia, sono convinto che anche così si poteva creare qualcosa di molto meglio. Una donna che, pur nella sua condizione subalterna, poteva mostrare intelligenza e forza di volontà. Non certo stupidità per la maggior parte del tempo e una voglia di manipolare subdolamente gli altri a tratti. 

Ma anche al di là dei personaggi, anche la trama lascia a desiderare: ridotta all'ossosi trascina in avanti stanca e senza un criterio, con diverse sottotrame che non vanno da nessuna parte e per giunta volgarità allucinanti. A me non danno fastidio neppure quelle gratuite, ma qui... lanciate qua e là all'improvviso quasi per voler strappare una risata o creare un senso di osceno, come farebbe un bambino, lasciano invece basiti. Non amo usare certi neologismi inglesi che si usano online, ma "cringe" è una parola perfetta per descrivere come sono.

Non parliamo poi del finale: è così trash da essere più che degno di un film di Boldi e De Sica - che comunque al contrario di Pamuk hanno il merito di non darsi tante arie e di non prendersi così sul serio. Non che sia meglio ciò che lo precede, quando l'omicidio viene risolto per puro culo caso. Una cosa che farebbe inorridire qualsiasi appassionato di gialli - e anche me, che in fondo apprezzo questo genere pur non essendone un fan sfegatato. 

In generale, parliamo di un romanzo la cui esistenza ha solo due motivi, nessuno dei quali sensato. Il primo, come detto, è di parlare di miniatura islamica: le digressioni di cui è composto buona parte del romanzo però sarebbero state meglio in un saggio (da cui io sarei stato alla larga, lo ammetto). Se invece scrivi un romanzo, allora ci deve essere una storia, al cui servizio devono anche essere le dissertazioni: così è nel Nome della rosa, che è bello anche per questo. I discorsi dei saggi de Il mio nome è rosso invece possono interessare forse qualche studioso accademico, ma per noi comuni mortali l'interesse è pari a zero.

Il secondo senso però è anche peggio: a me pare che Pamuk, invece di scrivere un romanzo per raccontare una storia al lettore, lo abbia scritto per sé stesso. Lo ha fatto in particolare per specchiarsi e per mostrare una (del tutto presunta) bravura agli altri, nonché per glorificare il proprio ego (e peraltro non è un caso se Şeküre era anche il nome di sua madre, e se questo personaggio nel libro ha un figlio col suo stesso nome). Non è altro che, insomma, l'equivalente letterario di chi si fa i selfie sui social, col problema aggiuntivo che ti fa perdere ore e ore di più

Riepilogando, Il mio nome è rosso è un libro che gronda egocentrismo, pieno di digressioni poco interessanti, con trama poco studiata, personaggi lasciati al caso e tono finto intellettuale. Niente di diverso da certi obbrobri che circolano autoprodotti su Amazon, e che giustamente vendono dieci copie in tutto. Anche per questo, mi allibisce che Pamuk abbia invece addirittura vinto un Nobel. Ci sarà riuscito perché viene dalla Turchia, un luogo non famoso per il numero di scrittori? Proprio non capisco.

I gusti sono gusti, non c'è dubbio. Tuttavia, che dire di un libro che infrange tutte le regole della letteratura?  E che lo fa, per giunta, non per proporre qualcosa di sperimentale, come fanno altri autori con risultati molto migliori, ma in maniera inesperta e direi persino infantile? Per quanto mi riguarda, non può essere altro che una bocciatura totale senza appello. E mi disturba molto il fatto che mentre ottimi autori faticano a farsi strada nella vita, simili  brutture vendano migliaia di copie e siano conosciute ovunque

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