Come vi avevo promesso, ecco qui un nuovo racconto, tutto per voi! E' questo un racconto che ho cominciato diverso tempo fa, forse quasi un anno, ma dopo poco l'ho abbandonato: mi pareva infatti che il mio stile non fosse sufficientemente buono per riuscire a scrivere qualcosa di così particolare com'era questa bozza già dall'inizio. Qualche settimana fa l'ho ripreso e l'ho concluso senza toccare la trama, che è rimasta la stessa pressoché dall'inizio, ma cambiando molto a livello di forma: forse sarò maturato stilisticamente rispetto al tempo in cui l'ho inizato, o forse ho semplicemente più esperienza e più facilità di scrittura, chi lo sa. In ogni caso, è un racconto del mio genere più classico, di fantascienza; spero per questo che ve lo godrete, anche per il fatto che questo è l'ultimo post prima della pausa natalizia.
La scoperta
L’altimetro della plancia di comando della Parbas segnalava che la nave si trovava ormai in prossimità del terreno: era giunto il momento dell’atterraggio.
“Ci siamo!” pensò Æsper mentre alzava al massimo i razzi di frenata. La cloche si fece più rigida, e la nave cominciò a vibrare leggermente; il suo pilota la controllò però con mano ferma, guidandola finché le sue sei solide zampe d’atterraggio non si posarono con un lieve scossone sul terreno.
“E’ fatta, finalmente!” esultò tra se Æsper, sospirando e rilassandosi contro il sedile di pilotaggio. In quel momento la tensione accumulata nei lunghi minuti della discesa si sciolse di colpo, ed una fortissima stanchezza gli piombò addosso.
“La mia impresa può aspettare un giorno” pensò mentre si alzava cautamente, per poi imboccare il lungo corridoio che dalla sala comando portava alla cabina. Appena vi fu giunto si spogliò velocemente e si infilò nel letto, addormentandosi quasi all’istante.
Il suo sonno fu così pesante che al risveglio, per un momento, si allarmò nel non avvertire il lieve ronzio causato dal viaggio attraverso l’iperspazio, ricordandosi solo dopo qualche attimo dei fatti del giorno prima. Anche quando si fu svegliato del tutto, tuttavia, la sua epocale scoperta continuò a sembrargli irreale, quasi un sogno. Tutti i pianeti individuati fino ad allora nella breve storia dell’esplorazione iperspaziale di Erthæ erano totalmente inabitabili, per un motivo o per un’altro; quello invece, dalle analisi in orbita, sembrava avere un’atmosfera accogliente, con una quantità di ossigeno ed una temperatura più o meno analoghe a quelle del pianeta di Æsper. Gli unici problemi erano la gravità e la pressione, entrambi piuttosto basse, ma la tuta esplorativa poteva tranquillamente sopperire ad entrambe: era stata così semplice la decisione di scendere sulla superficie. La scoperta che lo avrebbe fatto reso famoso era però un’altra: nelle ultime fasi della discesa l’esploratore aveva notato delle irregolarità sul terreno, ed avvicinandosi ancora ne aveva potuto constatare la vera natura. Non erano rocce né formazioni geologiche di qualche tipo, sembravano invece essere alberi. Alberi! Era in assoluto la prima forma di vita aliena mai scoperta ed Æsper, di conseguenza, sarebbe divenuto il più famoso esploratore solitario nella storia di Erthæ. Non aveva altro da fare, per documentare l’impresa, che ispezionare un po’ la zona nei dintorni del luogo d’atterraggio e raccogliere campioni ed informazioni sulle forme di vita presenti, poi sarebbe potuto decollare di nuovo alla volta del suo pianeta. Così, dopo aver passato un’ora a fare rilievi dalla sala comando della nave, Æsper indossò la tuta esplorativa. Entrò quindi nella camera di pressurizzazione e premette il bottone di apertura: con un lieve clangore il portellone comincio a scorrere, lasciando per un momento fuoriuscire un intenso flusso d’aria. Rapidamente la situazione si stabilizzò, e Æsper poté affrontare la scaletta: era fuori! La prima cosa che lo colpì fu il terreno: era in apparenza ricoperto di qualcosa di simile alle rocce sedimentarie, eppure aveva una consistenza più friabile, per non parlare poi del suo strano colore grigio-rosaceo. L’esploratore raschiò via un po’ di scaglie di roccia dalla superficie e le mise in un sacchetto che infilò in una delle larghe tasche laterali della tuta: le avrebbe fatte analizzare al suo ritorno su Erthæ. Riprese quindi a camminare, finché non fu uscito da sotto alla pancia della Parbas; lì si fermo a guardarsi intorno. Il panorama, illuminato da una luce tra il bianco ed il verde chiaro, era simile in tutte le direzioni, ma ai suoi occhi appariva estremamente bello, di un fascino alieno, soprattutto per merito della foresta che circondava la piccola radura in cui era atterrato e creava un contrasto netto con l’azzurro del cielo, così simile invece a quello del suo pianeta natale. Æsper si diresse proprio verso il bosco, ed appena fu giunto al limite della vegetazione prese ad osservarla: erano alberi alti e di colore marrone spento, che si levavano altissimi e senza alcuna ramificazione, al contrario di quelli di Erthæ. Altre piante là attorno erano di colore nero, ma a parte questo erano simili in tutto e per tutto a quello davanti a cui lui si trovava. L’esploratore scattò qualche fotografia e prelevò un campione di corteccia da uno degli alberi; poi, eccitato alla prospettiva di nuove scoperte, si mise in cammino.
Vagò a lungo per la foresta senza incontrare un solo animale, nemmeno di piccolissima taglia. L’unica forma di vita presente sul pianeta, o almeno su quella parte di esso, erano evidentemente quegli alberi.
“Probabilmente questo è un pianeta giovane dal punto di vista evolutivo, gli animali non hanno ancora colonizzato la terraferma, si trovano solo negli oceani” ipotizzò Æsper, riportando alla mente i suoi vecchi studi di biologia. Continuò a camminare, scattando ogni tanto qualche foto, ma ormai il suo fascino per quel mondo era per gran parte scemato: il paesaggio era sempre uguale a se stesso, non cambiava quasi per nulla man mano che avanzava. Fosse stato un esobiologo probabilmente sarebbe stato ancora esaltato, ma lui non riusciva più ad apprezzare quella monotonia, per quanto imponente e rigogliosa.
“E’ il caso di tornare indietro, direi” decise infine, e si fermò nel mezzo della foresta: proprio in quel momento, notò davanti a se un piccolo movimento, quasi impercettibile. C’era qualcosa che camminava tra gli alberi in lontananza, e che si muoveva proprio nella sua direzione, rapidamente, quasi a balzi. Infine, spuntò tra gli alberi, trovandosi a pochissima distanza da lui: Æsper poté così vedere che era una bestia alta il doppio di lui e dall’aspetto orribile. Aveva un corpo tozzo e tappezzato qua e là da grosse escrescenze che culminava nella testa, piccola rispetto al resto ma comunque imponente, su cui oltre a due occhi spenti, da morto, spiccava una grossa bocca, ricoperta da piccoli tentacoli ed incorniciata da quelli che sembravano due lunghi baffi. L’esploratore a quella visione fu preso dalla paura, ma riuscì a mantenersi calmo, preparandosi a difendersi. L’animale volse per un attimo la testa verso di lui, mettendolo ancor di più in agitazione; poi, con gran sorpresa di Æsper, si raddrizzò e con un piccolo balzo riprese la sua marcia nella stessa direzione.
“Deve essere un animale erbivoro. Del resto qui attorno non sembrano esserci abbastanza prede di cui un carnivoro possa cibarsi” si disse l’esploratore, sospirando rinfrancato. Ora che la paura stava lasciando rapidamente spazio alla curiosità ed alla voglia di conoscere, decise sul momento di rincorrere quell’essere al tempo stesso così brutto e così affascinante.
Gli tenne dietro per qualche minuto, di corsa per non perderlo di vista. La fatica cominciò a farsi sentire, ed Æsper stava quasi per lasciar perdere l’inseguimento, quando l’animale si arrestò, in una zona dalla vegetazione meno fitta. Appena gli fu vicino, l’esploratore poté vedere che in uno spazio leggermente più largo tra gli alberi, quell’essere si era acquattato a terra e si scuoteva piano. Cautamente, cominciò ad avvicinarsi ancora di più, cercando di capire meglio cosa stesse facendo; contemporaneamente, un improvviso boato squarciò l’aria. Nel giro di qualche istante, dal nulla esplose una pioggia violenta che iniziò a percuotere con forza tutto il terreno lì attorno. Æsper si mise al riparo sotto un albero, mentre l’animale si trovava ancora allo scoperto: appena ne fu colpito, cominciò a scuotersi con foga, per poi accasciarsi a terra, stecchito. L’esploratore si stupì: si sarebbe aspettato che l’animale fosse abituato a quella strana precipitazione, che era probabilmente la norma su quel pianeta.
“Deve essere pioggia acida. Chissà come hanno le forme di vita ad evolversi e a sopravvivere qui, su questo pianeta così inospitale.” si chiese Æsper. Lo scroscio durò pochissimo tempo, per poi estinguersi quasi di colpo. Quando vide che non cadeva più nemmeno una goccia, l’esploratore controllo la propria tuta: sapeva che poteva resistere a ben altro che ai pochi schizzi corrosivi che gli erano giunti, ma era meglio controllare che fosse tutto a posto.
“Nessun danno, neppur lieve.” constatò infine, sollevato, prima di prepararsi al rientro: ne aveva abbastanza di quel pianeta, almeno per il momento. Infilò le mani nella tasca degli attrezzi, alla ricerca del dispositivo che consentiva di far volare l’astronave fino al punto in cui si trovare: frugò a lungo, ma non riuscì a trovarlo.
“Dannazione, non c’è! Lo avrò lasciato sulla Parbas? No, ho controllato prima di partire e c’era. Mi sarà caduto mentre inseguivo quel mostro? Dannazione!” imprecò tra sé, mentre le sue dita si infilavano in un piccolo buco, che non aveva notato prima di allora. Senza quell’oggettino, l’esploratore era costretto a trovare la nave da solo: sconsolato, si volse perciò nella direzione da cui era giunto inseguendo il mostro e prese a muoversi.
Dopo un’ora di cammino, Æsper dovette arrendersi all’evidenza: si era perso.
“Dannazione a me stesso” imprecò, fermandosi in cima al pendio che affrontava ormai da un po’, credendo di averlo percorso in discesa all’andata. Si sentiva affaticato, nonché ansioso più che mai. Smarrito, si guardò intorno: da lassù si poteva vedere l’intero panorama, constatò subito. Davanti a sé vi era un pendio piuttosto ripido, che terminava bruscamente: partiva da lì una foresta dall’aspetto molto diverso da quella che aveva percorso fino ad allora.
“Oh mio dio, eccola là!” pensò d’improvviso Æsper, scorgendo una forma familiare: anche se piccola piccola, in lontananza, sembrava proprio la sua astronave. Ma come era arrivata laggiù, in quel posto in cui era certo di non essere mai passato? E come mai sembrava muoversi leggermente?
“Forse un altro di quei mostri ha trovato il comando a distanza, e giocandoci a caso ha inavvertitamente fatto muovere l’astronave. Oh, sia lodato il suo sistema automatico antischianto!” si disse Æsper. Non era molto probabile fosse andata davvero così, ma a quel punto, stufo com’era di quella escursione, non gli importava nulla: prese così a discendere il pendio, diretto verso l’astronave, unico luogo del resto dove avrebbe potuto scoprire la verità.
Scese molto velocemente, facilitato anche dal fatto che il terreno in quella zona non fosse per nulla accidentato: presto si ritrovò alla zona di confine che aveva visto dall’alto. Era un limite incredibilmente netto: la base di roccia finiva all’improvviso e ne cominciava un’altra all’apparenza di sabbia, o di terriccio. Anche la vegetazione cambiava radicalmente: alle ultime piante del tipo che aveva incontrato fino ad allora, stranamente dall’aspetto cadente e malato, se ne sostituivano di anche più alti, totalmente verdi, seppur di aspetto vagamente simile ai precedenti.
“Forse questi alberi sono più simili a quelli di Erthæ, si alimentano con la fotosintesi” pensò l’esploratore fermandosi per un momento a guardarsi attorno, prima di riprendere il cammino. Continuò a muoversi in linea retta per qualche minuto,a passo rapido, finché non si ritrovò in una nuova radura, molto ampia e del tutto brulla. Dall’altra parte, con somma gioia, scorse la Parbas: era immersa tra gli alberi dall’altra parte della macchia e si spostava adagio.
“Il difficile sarà ora entrare di nuovo dentro, ma se riesco ad arrampicarmi su un albero e poi a saltarle sopra quando si tufferà di nuovo nella foresta, dovrei farcela” si disse l’esploratore, calcolando la direzione in cui si muoveva. Presto lo comprese, e corse verso la zona verso cui la Parbas si muoveva; appena vi fu arrivato, si mise alla ricerca di una pianta adatta al suo piano. La individuò, e si apprestò a salire, ma prima controllò che fosse sulla precisa traiettoria della nave: ciò che vide lo lasciò di stucco e lo spaventò. Quella che credeva essere la Parbas era in realtà un animale gigantesco, forse leggermente più piccolo della nave ma con una forma molto simile, a clessidra, le stesse sei zampe e lo stesso colore tra il rosso ed il nero: nessuno stupore che l’avesse scambiato per la sua astronave. La creatura continuava ad avanzare verso dove si trovava, anche più veloce ora, con atteggiamento aggressivo: mentre Æsper, mantenendo il sangue freddo nonostante la paura, tirava fuori dalla tasca la pistola, poté così notare meglio il suo corpo, irto di radi peli, e la grossa sua testa, con due occhi enormi ed assolutamente malvagi, due lunghi tentacoli rigidi ed una bocca grande e terribile, caratterizzata da due grosse chele dall’aria micidiale. Ora l’animale lo stava proprio caricando, emettendo un ruggito alto e ferino; l’esploratore però non si fece prendere dal panico, prese con calma la mira al centro degli occhi della creatura e poi sparò. Lo colse in pieno, ma l’essere non sembrò risentirne, diventò anzi ancor più agitato e furibondo ed arrivò quasi ad agguantare Æsper, che riuscì a schivarlo per un pelo, rotolando poco lontano, per poi rialzarsi e sparagli di nuovo al fianco. Il proiettile lo beccò ad una delle sue zampe, al che il mostro inarcò la schiena, gemendo di dolore.
“I piedi sono il suo punto debole!” realizzò in un attimo l’esploratore, cominciando a bersagliare le altre zampe dell’animale: in un momento gli mise fuori uso l’intero lato, e quando esso cercò di scuotersi e di continuare l’attacco, poté fare lo stesso con le gambe dall’altro lato.
«Non te l’aspettavi, eh, bastardo?» gli urlò Æsper sfogando la tensione accumulata durante lo scontro, mentre il bestione ormai abbattuto al suolo rantolava in maniera pietosa. L’esploratore si avvicinò per finirlo quando con la coda dell’occhio notò un movimento provenire dal suo fianco: fece giusto in tempo a voltarsi per vedere un secondo mostro, simile all’altro, spuntare dall’intrico della foresta, prima che le sue chele lo afferrassero e lo tirassero su in alto, cominciandogli a stritolargli le ossa. Æsper cacciò un urlo di sorpresa e di terrore, poi le fauci si aprirono e si chiusero di nuovo, e tutto sparì nell’oscurità.
«Ma’, vieni qui! Fai presto!» strillò Andrea. Un minuto dopo, sua madre arrivò in giardino trafelata: doveva essere corsa giù dal primo piano della casa.
«Che diavolo succede? Perché hai urlato? Spero tu abbia un motivo valido, giovanotto, mi hai spaventato!»
«Guarda Lucky! Ha qualcosa di strano addosso!» disse il ragazzo indicando il suo cane nella cuccia.
«Cosa, quella roba lì? Non è niente, è solo una formica, di quelle rosse, non vedi?»
«Così grande, una formica rossa? E poi non si muove!»
«Eh, certo! Prima a Lucky ho dato l’antipulci, avrà ucciso anche quella!»
«Mi sembra strana lo stesso.»
«In ogni caso, ora gliela togliamo di dosso, quindi problema risolto» concluse la madre, allungando la mano. Le sue dita, così grandi e forti in proporzione, stritolarono così la navetta di Æsper e la gettarono lontano, cancellando ogni residua traccia del passaggio del minuscolo esploratore di Erthæ sulla Terra.
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