domenica 8 febbraio 2009

Il male

Dedico questo racconto ad Enrico "delphi". La storia è basata su un mio incubo arricchito molto con la fantasia, uno dei più brutti che abbia mai fatto, qualche anno fa: mi ricordo di essermi trovato in questo luogo desolato (non era un cimitero, non c'era nulla) e poi sono entrato lì (anche se non c'era un "portale"), ho visto quegli schermi e ho pensato "qui c'è il male"; quindi mi sono risvegliato. Comunque, nel racconto non c'è una morale che voglio mandare (e ovviamente nessun contenuto satanico), quella che è scritta alla fine è una "falsa morale", nel senso che è solo un modo per concludere il racconto. Spero comunque che vi piaccia.

Il male

Si alzò alle 6:30 come sempre svegliato da sua madre. Enrico sapeva che doveva andare a scuola, anche se quel giorno proprio non si sentiva in forma. La sera precedente aveva mangiato troppo rispetto al solito, aveva fatto indigestione, di conseguenza per gran parte della notte i dolori di stomaco non gli avevano fatto chiudere occhio, ed ora si sentiva stanco e spossato. Del resto era l’ultimo anno delle superiori, non poteva mancare neanche ad una singola lezione, altrimenti sarebbe rimasto indietro. E se non avesse recuperato? Doveva assolutamente arrivare alla maturità preparato, non poteva fallire quell’importantissimo appuntamento; quindi, anche se un po’ a malincuore, si era quindi convinto di andare a scuola comunque. Si vestì e uscì di casa alla solita ora, poi fece gli abituali 25 minuti di corriera ed arrivò a scuola a Savona senza alcun problema.

L’ora d’inglese, quella con la lettrice madrelingua, passò noiosa ma senza grane, e anche la successiva ora d’arte non gli presentò intoppi. Quel giorno era calmo, fin troppo, e in Enrico, man mano che prendeva appunti, la noia saliva sempre. Nessuna interrogazione, nessun compito in classe, solo un’ininterrotta e monotona spiegazione di argomenti magari anche interessanti, ma che nello stato psicologico in cui era non gli importavano affatto. Quando allo scattare della terza ora il bidello si presentò in classe per annunciare che la professoressa di filosofia, che avrebbe dovuto tenere lezione, aveva avuto un intoppo e sarebbe arrivata con un quarto d’ora di ritardo, Enrico seppe che doveva fare qualcosa per non dormire. Il giovane quel giorno si era messo un po’ in disparte rispetto alla classe invece di parlare con i suoi compagni, poiché era davvero prostrato e non aveva nessuna voglia di compagnia, diversamente dal solito. Nonostante ciò, non aveva però intenzione di assopirsi nell’attesa e riposarsi, era determinato a seguire le lezioni fino alla fine, era molto importante per lui. Decise di andare in bagno, là si sarebbe rinfrescato, e l’acqua del rubinetto lo avrebbe certamente risvegliato dallo stato di torpore in cui stava piombando. Senza farsi notare uscì dalla classe e si diresse al gabinetto. Si lavò velocemente la faccia; avrebbe preferito mettere la testa direttamente sotto il getto, considerando il suo intontimento, ma non le fece poiché se i suoi capelli lunghi si fossero bagnati gli avrebbero causato molto fastidio.

Si stava asciugando il viso con un fazzoletto di carta quando avvenne lo strano evento. Iniziò tutto come un leggero rombo in lontananza. Poi il rumore si fece sempre più forte, e nello stesso tempo la stanza cominciava a tremare, poi oscillava, quindi per un momento Enrico ebbe la sensazione che la gravità si fosse invertita. Però non cadde, rimase in piedi, e veloce com’era iniziato lo strano fenomeno si esaurì; nel giro di qualche secondo un silenzio tombale regnava nella stanza. Il giovane si chiese cosa mai era successo, se si era sognato tutto. Si, doveva essere senza dubbio così, l’acqua rimasta nel lavandino dallo scarico lento era piatta e senza onde, nulla sembrava cambiato. Senza pensare molto a ciò che era appena successo, aprì la porta del bagno. Ma l’abituale corridoio non c’era più. Si trovava all’aperto, ora, un luogo largo e pianeggiante, ed era notte. Alle sue spalle, non più il bagno, c’era una piccola cappella di famiglia, probabilmente della sua famiglia, anche se non poteva esserne certo (aveva un cognome molto comune). Il ragazzo si guardò attorno: era sicuramente in un cimitero, riusciva a vedere alcune tombe disseminate lì attorno, non ordinate come sono di solito nei cimiteri moderni, ma in ordine sparso come si vede nei vecchi film horror. Il cielo era completamente buio, senza alcuna stella, ma le luci dello sconosciuto paese che riusciva a vedere in lontananza illuminavano le fitte nubi sovrastanti di sinistri bagliori rossi. Il villaggio, per quel poco che ne scorgeva, era fatto di piccole casupole di legno dall’aspetto antico: e a questo contribuivano i vecchi lampioni a gas, che rischiaravano le strette viuzze che serpeggiavano tra un’abitazione e l’altra. Ma nelle finestre non c’era traccia di luce. Enrico pensò che probabilmente era molto tardi, e che gli abitanti stessero tutti dormendo. Ad ogni modo, anche se così non fosse stato, non si sarebbe mai diretto in quella direzione. Quel villaggio non lo ispirava per nulla, non sapeva per quale ragione, ma ne era come respinto.

Non avendo ben chiaro cosa fare, richiuse la cripta alle sue spalle ed iniziò a girovagare per il cimitero. Non si rendeva bene conto di come facesse, ma riusciva a vedere tutto nitidamente, anche se era consapevole dell’oscurità pressoché totale che dominava in quel posto. Si vedeva che nessuno lo visitava più da tempo, i pochi fiori che ancora rimanevano nei vasi accanto alle lapidi erano ridotti a steli marci e afflosciati; e sulle stesse pietre tombali, i licheni e i muschi coprivano molte delle scritte che vi erano incise. La terra sopra i sepolcri era ricoperta d’erbacce secche, come del resto i vialetti di passaggio fra di esse; e un po’ ovunque c’era sporcizia e spazzatura sparpagliata e abbandonata anche accanto e sopra le croci e le pietre tombali, come se fosse quel camposanto fosse una specie di piccola discarica. Il tutto conferiva un aspetto spettrale e desolato a quel luogo: e a questo effetto di certo aiutavano anche quei pochi alberi rinsecchiti e contorti che sporadicamente sorgevano tra una tomba e l’altra. Enrico vagabondò in quella necropoli per molto, non avendo l’orologio non sapeva neanche per quanto tempo fosse stato lì o quanto fosse passato dal suo arrivo. Seppe solo che, ad un tratto, si trovò di fronte un portale. Era un grande arco fatta di travertino bianchissimo, del colore del latte, finemente scolpito a raffigurare immagini di demoni spaventosi a vedersi e di ributtanti mostri usciti dalla blasfema fantasia di qualche scultore dalla mente depravata. La porta non aveva battenti, ne muri attigui, era semplicemente un’arcata eretta in mezzo alle tombe, e non sembrava avere un senso o una funzione. Tuttavia, il ragazzo avvertiva una sensazione oscura e misteriosa anche al solo posarvi lo sguardo. Il timore cresceva in lui di secondo in secondo, tuttavia la sua curiosità e la sua sete di conoscenza erano ancora  maggiori. Vinse le poche incertezze e le paure che lo attanagliavano, e chiudendo gli occhi varcò la soglia.

Si aspettava che avvenisse una delle due cose che si immaginava: dopo aver superato l’arco o non sarebbe successo assolutamente nulla, o lui sarebbe stato trasportato in un altro luogo, magari in qualche altra balzana dimensione. Nessuna delle due circostanze avvenne: si trovava ancora in quel cimitero, era ancora buio e in lontananza scorgeva ancora il villaggio. Tuttavia quel luogo era diverso: lì le lapidi formavano un circolo la cui entrata era proprio il portale che aveva varcato, anche se dall’esterno non sembrava affatto. Inoltre era come se le lapidi si fossero trasformate nel breve lasso di tempo che aveva , ora erano a forma di ripiani di pietra di varia altezza. Su questi piani poggiavano vari schermi di grandi dimensioni, come grossi televisori, tutti che proiettavano la stessa immagine, un unico grande occhio umano che si muoveva, e in ogni schermo aveva un movimento differente, come se tutti ci fosse una qualche forma di intelligenza dietro ognuno di quei globi oculari. Seppure bislacca come situazione, non c’era assolutamente nulla da temere, almeno razionalmente, nessun pericolo in vista. Eppure l’orrore si impadronì di Enrico all’improvviso senza alcun motivo, sopra ogni cosa, sopra ogni pensiero. In quel posto c’era il male, il male supremo, non sapeva come faceva a saperlo ma era così, non aveva dubbi. Non c’era altro lì, solo malvagità allo stato più puro, lo percepiva come se avesse avuto un sesto senso; il suo cervello era come se urlasse dalla paura, urlasse di allontanarsi immediatamente da lì. Il terrore lo prese, e corse via riattraversando la porta, preso dal panico.

Dopo pochi metri però si dovette fermare. Aveva un dolore forte al ventre, come quando faceva uno sforzo fisico notevole, eppure non si era neanche sforzato molto. Nonostante si fosse fermato, poi, il dolore cresceva, ed era come se lo stomaco gli stesse pulsando. Allarmatissimo, tirò su la maglia, e vide che qualcosa premeva contro la pelle, come se avesse voluto uscire, ed intanto il dolore si faceva acutissimo, come se qualcosa gli stesse scavando all’interno della pancia. Poi la pelle si ruppe davvero, e iniziarono a fuoriuscire migliaglia e migliaglia di mosche, con gli occhi rossi che brillavano in mezzo a tutte quelle tenebre, uno sciame malefico che cominciò a girargli attorno. Nonostante il tormento terribile, Enrico in un barlume di lucidità capì cosa gli stava accadendo: Baal Zebub, il signore delle mosche, ecco cosa aveva incontrato nel circolo di tombe! L’essere noto con molti nomi, colui che incarnava il male supremo, un concentrato di malignità senza pari. Lui ne era stato sopraffatto, e ora egli banchettava con il suo corpo e la sua anima, gustando con sommo piacere la sua grande sofferenza.  Mentre le larve delle mosche continuavano a divorarlo dall’interno, entrando in ogni parte del corpo, e gli insetti adulti tentavano di fare lo stesso sopra la sua epidermide, il giovane provava ad ogni secondo che passava nuove e più potenti forme di dolore, il raccapriccio e l’orrore per quello che gli stava capitando non avevano limiti. Gridò a lungo, poi perse i sensi.

Urlava ancora quando riaprì gli occhi. Era seduto al suo solito posto, nella sua classe, e davanti a lui il solito panorama dell’aula, come se lo ricordava. I suoi compagni erano lì, girati verso di lui, che lo fissavano, tra lo stupefatto e il divertito, e così la professoressa, con un’aria di rimprovero. Enrico chiese scusa rosso in volto. Capì che si era addormentato e si era sognato tutto, dalla sostituzione della professoressa alla morte violenta, passando per il viaggio in bagno e l’incontro con il maligno, tutto inventato. Evidentemente, la stanchezza gli aveva giocato un brutto tiro. Si ricordò questo come uno dei peggiori incubi mai fatti, e si ripromise di non andare più a scuola se non aveva dormito la sera prima, la salute, fisica ma anche mentale, era più importante che conseguire il diploma.

3 commenti:

  1. Bravo Mattia, mi è piaciuto molto questo racconto, anche perché io amo tantissimo quelle ambientazioni Dark, molto tenebrose :) grazie ancora!!!!

    Bella la parte con Satana!

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  2. Wow..molto bello questo racconto..il finale mi ricorda un po Poe (scusa il gioco di parole)! Molto bello davvero!

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