sabato 25 luglio 2009

Wiesgarðr

Nuovo racconto scritto da me, dedicato a Marco "Bompa". Ho cercato di fare un racconto diverso dal solito, in bilico tra epico e fantasy. Numerose le fonti a cui mi sono ispirato, pur essendo il racconto originale, dalla primaria e dilagante presenza della mitologia vichinga ai racconti di Howard su Conan il Barbaro, dalla cultura norrena ad alcune canzoni dei Manowar. Spero sia di gradimento, e spero pure che non crei invidia, il parlare di terre ghiacciate quando fuori si toccano i 40 gradi e si muore di caldo.
P.S. conoscerò Marco al Pagan Fest, quindi tra quegli "amici" che ci sono alla fine ci sono anche io, in un hitcockiano cameo.

Wiesgarðr

Marco era da sempre una persona allegra, pure troppo a detta di alcuni suoi conoscenti. Non si arrabbiava mai, prendeva sempre la vita scherzando, e non aveva mai pensieri negativi. Non ci aveva mai riflettuto, a dir la verità: lui prendeva la vita come veniva. Era sempre felice, ma non capiva quanto questo fosse speciale, una cosa che molti altri si sognavano, una cosa rarissima nei giorni moderni. Almeno, non lo capì fino a quel giorno.

30 settembre 2009. Quel giorno Marco aveva programmato le ferie dal lavoro, per andare a Milano a vedere un festival musicale. Il Pagan Fest era un evento in cui avrebbero suonato principalmente band folk metal, creato principalmente per gli amanti di questo genere, come era il giovane. Inoltre in quella edizione, gli headliner erano i Korpiklaani, uno dei gruppi più influenti nel campo del folk, perciò non poteva davvero mancare. Seguì con passione i vari gruppi-spalla che si susseguivano insieme agli amici conosciuti quel giorno nella zona più calma del locale, sorseggiando un boccale di birra; solo con il gruppo principale si sarebbe scatenato e sarebbe andato nella bolgia. Appena il gruppo apparve sul palco, si gettò nel pogo, lasciandosi andare. Le prime tre o quattro canzoni furono normali, se si può parlare di normalità in un pit. Poi però successe il misfatto: mentre la band suonava il cavallo di battaglia Happy Little Boozer, una canzone veloce su cui la bolgia si scatenava, d’un tratto il ragazzo perse l’equilibrio. Per sfortuna, o forse per una strana coincidenza, quelli che gli erano intorno non riuscirono a prenderlo in tempo come succede quasi sempre nel pogo, così Marco cadde a terra e batté violentemente la testa. Il dolore fu sul momento intensissimo, tanto da fargli chiudere gli occhi, e subito provò una sensazione di freddo. Non gli sembrò nulla di particolarmente rilevante, in quel momento, e massaggiandosi la fronte, si rialzò velocemente. Non sentiva più la band suonare, solo silenzio, e chiedendosi cosa stesse succedendo aprì gli occhi. Li dovette subito richiudere: la luce era bianca ed accecante, e gli provocava dolore. Di nuovo, questa volta più gradatamente: e quando li ebbe completamente aperti, si sgomentò di ciò che vedeva. Non era più nel locale, ma in una pianura ricoperta da una coltre bianca che si spingeva oltre i confini di vista. Grossi fiocchi di neve scendevano dal cielo, e la visibilità era molto limitata. Dal punto in cui era, il giovane non riusciva a vedere altro che qualche pino qua e la ed un piccolo laghetto ghiacciato. Come in un sogno, senza sapere cosa fare, si avvicinò allo specchio d’acqua e vi guardò dentro, ma non vide altro che la sua immagine riflessa… ma che immagine! Era sempre lui, ma molto più giovane di quanto si ricordasse, un bambino, si dava al massimo 10 anni. Ora che ci pensava, si sentiva anche diverso, oltre ad apparire tale, eppure non aveva perso alcun ricordo, e tutto gli sembrava un bislacco sogno. Spiazzato e senza sapere cosa fare, ma con il solito ottimismo, Marco si mise in cammino.

Per ore e ore camminò per la pianura, mentre la neve continuava a cadere. Il panorama cambiava veramente di poco, sempre un deserto ghiacciato con solo qualche abete che spuntava qua e la ed ogni tanto una pozza d’acqua congelata. Più volte si accorse di aver incrociato le proprie stesse impronte, ma ciò nonostante non si scoraggiava. Giunse la sera, e poi la notte, e Marco si ritrovò a vagare al buio e al freddo, i vestiti leggeri che lo proteggevano a malapena dal gelo. L’unico modo per non congelare era continuare, imperterrito, ad andare avanti, resistendo. Alla fine, questa strategia risultò vincente: dopo ore, finalmente, nelle tenebre e nella nebbia scorse una debole luce; né fu subito felice, ma era ormai quasi assiderato, e la tensione che lo aveva condotto a quel punto si era ormai affievolita fino a sparire. Prostrato dalla fatica e dal freddo, il giovane cadde a terra, svenuto.

Si svegliò in una piccola casupola di legno, illuminata da un caminetto che si trovava su un lato. Davanti al caminetto, un omone gigantesco, con lunghi capelli che gli scendevano sulla schiena, che in quel momento pensava al fuoco raggrumando i ciocchi. Tentò di alzarsi, e in quel momento l’uomo si voltò dalla sua parte, mostrando un paio di folti baffi. Parlò in una lingua strana e dissonante, ma che il giovane, stranamente, comprendeva benissimo e, come si accorse poi, riusciva persino a parlare. Gli chiese chi era, se si sentiva bene e da dove veniva, poiché aveva l’aspetto di uno straniero. Marco rispose, gli disse che stava bene, ma che non sapeva come era arrivato lì e non aveva idea neppure di dove si trovasse. L’uomo disse di chiamarsi Ari, e che il giovane si trovava in un paese chiamato Wiesgarðr. Poi domandò cosa ci faceva un ragazzino piccolo come lui all’aperto in una landa desolata come quella, ma il ragazzo replicò che era più vecchio, prima, e che non sapeva nemmeno perché fosse ringiovanito; allora lasciò perdere il discorso, e gli disse di riposare, consiglio che Marco accolse immediatamente, cadendo quasi subito in un profondo sonno senza sogni.

Da Ari, il giovane apprese molte cose: che Wiesgarðr era una terra del nord, nel mondo di Miðgarðr e che si affacciava sul mare. Il popolo Wies, che abitava quella terra, era testardo ma di buon cuore, ed era noto alle altre genti per l’agricoltura ma anche per la navigazione e per il saccheggio che perpetuavano sui mari. L’uomo adottò Marco e lo allevò come un figlio, rinominandolo Sweyn, come suo padre. Gli insegnò a spaccare la legna, a fare le faccende in casa, a coltivare la terra, ma era il combattimento con la spada l’addestramento preferito del giovane. Passarono le stagioni, la neve se ne andò e poi tornò più volte, e man mano il corpo del giovane si irrobustiva, cosa che durante la sua “crescita precedente” non era successo. Ari era giusto, ma molto severo, e man mano che gli insegnava l’arte della guerra, il giovane sentiva la felicità quella che dava per scontato, abbandonarlo costantemente, sostituita solo dal vuoto. Arrivò ad un punto che non riusciva più a provare gioia, ma solo rabbia ed odio. Infine, tornò all’età alla quale era prima di arrivare in quelle terre, ed a quel punto, pur non disprezzando affatto la stabilità della vita con il suo padre putativo decise che era ora di andarsene, alla ricerca della felicità che non riusciva più a provare.

Vagò per diversi anni in tutta Wiesgarðr e negli stati confinanti, alla ricerca di qualcosa di cui egli stesso ignorava la natura, in compagnia solo della spada che il padre gli aveva regalato. Mangiava grazie alla carità dei contadini o rubacchiando qua e la quel poco di cui necessitava, e dormiva sotto ripari improvvisati. I giorni passavano lenti, diventando settimane e poi mesi, e man mano il giovane perdeva la speranza. Aveva ventisei anni, quando, casualmente, si ritrovò nella capitale di Wiesgarðr, il giorno stesso della morte del re. Harald, secondo del suo nome, era stato un monarca saggio e pacifico, ma era morto senza lasciare eredi maschi. Per nominare il suo successore, si era deciso di indire un torneo, ed il vincitore sarebbe divenuto re. Sweyn ne venne a conoscenza, e decise di iscriversi, anche se in realtà non era così tanto desideroso di governare gli uomini. La tecnica di combattimento che Ari gli aveva insegnato era davvero ottima, però, così alla fine egli riuscì ad imporsi su ogni avversario, anche il più duro, e fu elevato alla regalità. Gli anni successivi furono molto belli: il popolo acclamava e amava re Sweyn, primo del suo nome, ed egli si dimostrava altrettanto saggio del suo predecessore, ma non altrettanto amante della pace. Grandi razzie compi con le Drakkar per mare, e il regno si arricchì di tesori mai visti prima. Ma non fu solo un guerrafondaio: sviluppò anche i commerci e strinse trattati di pace con gli stati confinanti, mentre ad essere razziati erano solamente i deboli stati nel sud di Miðgarðr. Ovunque nel regno, il re era amatissimo, e tutti erano felici perfino di pagare le imposte. Ma egli non era felice, ancora non aveva ritrovato ciò che lungo la strada aveva perduto.

Lunghi anni passarono, finché si ritrovò cinquantenne, ancora senza un briciolo di quella gioia che aveva sempre avuto prima di arrivare a Wiesgarðr. Aveva avuto esperienze delle più varie, era sposato con una donna tanto bella da ricordare una valchiria, e che lo amava veramente, ed aveva generato tre figli, ma nulla gli dava allegria. Un giorno, passeggiando per la capitale del regno, notò un chiosco di una veggente, e l’istinto gli disse di entrare. L’ambiente era pieno di fumo, e la veggente, un’orrida vecchia quasi priva di capelli, si vedeva appena. Appena lo vide, ella gli prese la mano, poi chiuse gli occhi ed entrò in una specie di trance. Durò qualche attimo, poi la veggente si risvegliò e parlò con una voce cavernosa che a stento sembrava appartenere ad una donna tanto minuta. Disse che sapeva, il problema era la felicità perduta, e che c’era solo un modo per riottenerla: andare nel sotterraneo regno dei morti, l’Helheimr, e battere la dea Hel in duello. Senza pensarci due volte, Sweyn abbandonò ogni cosa, lasciò il regno nelle mani del suo primogenito Ari, ormai ventenne, e partì verso nord.

Arrivò ai confini di Wiesgarðr e poi li sorpassò. Lasciò le terre degli uomini, uscì da Miðgarðr ed entrò nel Niflheimr, la terra dei ghiacci perenni. Lo attraversò tutto cercando di fare in fretta, per paura di incontrare i giganti di ghiaccio che lì si diceva abitassero. Ma non trovò altro che silenzio, in quelle terre, e in pochi giorni riuscì ad attraversarle tutte. Poi, la strada iniziò a scendere, e in men che non si dica si ritrovò sotto terra, non in una caverna normale, ma in un grosso ambiente illuminata da una pallida e anomala luce verdognola. Passò per il regno di Svartálfaheimr senza incontrare ostacoli, gli elfi oscuri che lì risiedevano non lo degnarono di un’occhiata, come se la sua visita fosse già prevista. Perfino il terribile cane Garmr dal pelo macchiato di sangue umano, che egli aveva tanto temuto di incontrare, lo lasciò entrare nella caverna del Gnipahellir. senza nemmeno opporsi. Camminò a lungo in quella grotta, perdendo perfino la cognizione del tempo; poi, alla fine, il condotto si allargò, ed egli si ritrovò improvvisamente in una grande aula. Davanti a lui, finalmente, il Gjallarbrú, il ponte d’oro che segnava l’entrata al regno di Hel. Oramai era arrivato, non poteva più tornare indietro. Prese coraggio, ed iniziò ad attraversare il ponte. Giunto circa a metà, si accorse di una piccola figura che avanzava dall’altro lato. La dea Hel! Era esattamente come i racconti e i canti la rappresentavano: per metà una bella ragazza, e per l’altro un cadavere in decomposizione. Il viso, diviso verticalmente come il resto del corpo, aveva un’espressione triste, tanto da impietosire Sweyn; ma la sua risoluzione a ritrovare la felicità perduta era troppo forte, ed egli non poté tirarsi indietro. Sospeso sull’abisso, gridò alla dea che l’avrebbe sconfitta, fosse stata l’ultimo atto della sua vita. Il volto di Hel si contrasse in una smorfia di rabbia, poi subì una trasformazione, ed in pochi attimi era diventata enorme; dalla ragazza che era aveva assunto l’aspetto di un terribile gigante completamente nero, dal volto terribile. Spaventatissimo, il re tirò comunque fuori tutto il coraggio di cui disponeva, e si gettò addosso al mostro. Per tre volte riuscì a ferirlo con la spada, ma esso continuava a combattere come se nulla fosse, con il suo gigantesco acciaio, orripilante a vedersi. E fu così che, mentre tentava il quarto affondo, Sweyn venne colpito e cadde a terra. Allora la dea gli si fece sopra, e aprì le fauci. Disse con voce spaventevole che non solo non avrebbe ritrovato la felicità, ma che nonostante stesse per morire con onore non sarebbe andato nel Valhalla, poiché nessuna valchiria sarebbe mai arrivata fin laggiù. Sarebbe invece rimasto lì nell’Helheimr, e avrebbe servito lei per l’eternità, camminando nel vuoto e con il vuoto nel cuore. Poi i terribili e affilati denti calarono su di lui, senza nemmeno dargli il tempo di urlare.

Si tirò a sedere dalla posizione sdraiata in cui si trovava. Non era più nell’Helheimr, ma in un posto diverso, ed era notte. Sentiva di aver già visto quel posto, ma non ricordava dove. Poi vide i suoi amici, quelli che aveva incontrato lì per la prima volta dopo averli conosciuti su internet, che lo guardavano. Allora si ricordò: il suo nome era Marco, non Sweyn! Ora riconosceva pure il posto, era l’esterno del locale dove suonava il gruppo, e ancora si sentivano, attutiti, i suoni di Wooden Pints. Non era passato più di qualche minuto da quando aveva sbattuto la testa, apprese poi dagli amici, e loro lo avevano portato fuori dal locale per farlo respirare. Ora il giovane si sentì felice, e subito dopo stupito, poiché era una sensazione che non provava da moltissimo, da quelli che gli sembravano anni. Ancora più allegro felice, propose di rientrare nel locale. Aveva capito il significato recondito di quella allucinazione, ovvero che la felicità è un bene inestimabile, non una cosa da tutti i giorni; e, finché ebbe vita, il giovane conservò la gioia, cercando di rendere più contente anche le altre persone.

lunedì 20 luglio 2009

The Eagle has landed...

Avrei voluto scrivere una poesia, per commemorare l'evento di oggi. Il 20 giugno 1969 per la prima volta l'uomo scendeva sulla Luna a bordo del modulo lunare Eagle, una data storica e piena di romanticismi per gente che, come me, ha una certa forma di fascino nei confronti di scienza e tecnologia. Purtroppo l'ispirazione non mi è arrivata, o meglio: le mie parole non erano esprimevano nemmeno minimamente tutto ciò che provo nei confronti di questa impresa storica. Per questo ho preferito esimermi, e scrivere un semplice post del genere. E chiudo con le storiche e bellissime parole di Neil Armstrong, il primo uomo sulla Luna.

It's one small step for a men, a giant leap for mankind

E' un piccolo passo per un uomo, un balzo da gigante per l'umanità

E, si spera, che a questo passo ne seguano altri, e che l'uomo non si faccia vincere dalla paura dell'ignoto.

sabato 27 giugno 2009

Chiusura estiva?

Allora, noto con piacere che il mio blog ha già raggiunto la considerevole quota di 8 lettori. Non so quanti di loro mi leggano abitualmente; con alcuni non ho più contatti e con uno ho addirittura litigato (per poi pentirmene), quindi non so. Comunque tant'è, non pensavo di aver tanto successo, in così pochi mesi.

Comunque, mi dispiace un po' annunciarvi che quest'estate per me sarà abbastanza infuocata, in tutti i sensi: sono sobbarcato di studio e di esami, ho parecchio da recuperare, perciò non avrò molto tempo per scrivere. Tenterò comunque di lavorare il più possibile, e di postare comunque qualcosa.

martedì 16 giugno 2009

La sciagurata fine della civiltà umana

Questo racconto in realtà rappresenta appieno la totale sfiducia nelle cosiddette "generazioni future" che ho maturato in seguito a diverse esperienze personali, alcune delle quali abbastanza dolorose, anche. L'ho scritto abbastanza di getto, quindi eventuali errori o forme non proprio "armoniose" potrebbero essere perdonabili. Comunque, credo sia un pochino "sperimentale", come racconto, almeno rispetto al solito, ma nonostante questo spero sia ugualmente di gradimento.

La sciagurata fine della civiltà umana

L’umanità, in quell’epoca, era molto più avanzata di come la conosciamo noi oggi. Non c’erano più guerre, né carestie, e nemmeno povertà, ognuno aveva il suo spazio vitale e tutto ciò di cui necessitava. Non fu facile arrivarci, erano stati inevitabili drastici cambiamenti in ogni campo. Dalle politiche tra nazioni alla gestione della popolazione, grandi riforme erano state attivate: il controllo delle nascite era molto restrittivo; non si poteva usare più di un certo numero di risorse per non sfruttare troppo la Terra; e così via, con molti altri provvedimenti del genere. Alla fine, però, ne era valsa la pena: in appena duecento anni, come in una specie di miracolo, si era passati dal XI secolo, con ancora tutti i difetti che il mondo si portava dietro dal II millennio, al XIII secolo, dove tutto il pianeta era unificato sotto la stessa bandiera, e civiltà e razionalità dominavano in ogni legge e più in generale nella società tutta.

Tuttavia, la situazione non era così perfetta come potrebbe apparire, e all’improvviso si presentò un problema. Tutto cominciò nel 2200 circa: e in pochi decenni, in giro per ogni città o paese, per quanto di minuscole dimensioni, c’erano bande di delinquenti, spesso composte da giovani, che devastavano e spaventavano la popolazione. Purtroppo, in quegli anni, la stragrande maggioranza dei genitori utilizzava il cosiddetto “Metodo Lobosky” (dal nome di colui che lo aveva inventato), nell’allevare i figli loro concessi dalla legge (al massimo due). Questo deleterio sistema consisteva nel non ostacolare in alcun modo il bambino, nell’assecondarlo sempre ogni suo capriccio, bandendo ogni forma di punizione; questo perché la giovinezza era concepita come qualcosa di sacro, era l’età in cui più di tutte si poteva giocare e godersela, prima che l’età adulta ridimensionasse la capacità di divertimento dell’individuo (che comunque continuava a divertirsi, a quei tempi ognuno era pagato un tot ogni mese indipendentemente da ciò che faceva, mentre il lavoro manuale era svolto solo dalle macchine e quello di pensiero solo da appassionati), e per questo non si poteva limitarli o penalizzarli in qualcosa. Era davvero la visone più razionale? Forse…o forse no, forse era solo sparita la voglia e la pazienza dei genitori nell’impegnarsi nel duro compito dell’educazione. Sta di fatto che, troppo abituati ad avere tutto ciò che volevano, e senza alcuna capacità di distinguere tra il bene e il male, i bambini entravano in una banda una volta diventati abbastanza grandi (di solito, a 13-14 anni), al solo scopo di sfogare i propri istinti. Erano Congreghe, come i suoi affiliati di solito le chiamavano, formate da maschi e femmine indifferentemente: si appropriavano di un certo spazio, in una città, e in questo dominavano e facevano ciò che volevano, senza nessuno a contrastarli. Le forze dell’ordine erano incapaci, non avevano mezzi a sufficienza per contrastare tutto ciò, le armi mortali erano state bandite nel 2183, e quelle elettriche, le uniche concesse, non spaventavano più di tanto chi ne subiva gli effetti. Per questo motivo la polizia non aveva alcun potere su quelle brigate criminali.

E fu così che, in pochi anni, le Congreghe conquistarono tutti gli spazi, togliendo di legittimità ai governanti eletti democraticamente ed instaurando feroci dispotismi basati sul terrore. C’era come un patto, non scritto, di belligeranza ridotta tra di loro: le frequentissime schermaglie territoriali dei confini non dovevano avere altro seguito che qualche assassinio di un affiliato o lo stupro di qualche affiliata, mai più di questo. Non ci dovevano essere assolutamente faide o conflitti veri e propri. Era un comportamento tutto sommato acuto, che consentiva alle Congreghe di non indebolirsi, e di continuare a dominare incontrastate, senza il più pallido pericolo di una ribellione popolare. Sotto la dittatura delle bande il mondo passò una decina di anni di paura, ma la situazione era pacifica, alla fine. Poi, come se si fossero sintonizzati, accadde in tutto il mondo simultaneamente che i capi delle Congreghe, giovani uomini esaltati e violenti, senza un minimo di morale, iniziassero a usare il mondo e tutti gli abitanti come una proprietà esclusiva, per divertimento. Ogni scuola, anche del più piccolo paesello di montagna, ogni museo, ogni biblioteca venne vandalizzata e poi distrutta: alle Congreghe non piacevano l’istruzione e la cultura, le trovavano inutili e noiose. I negozi vennero depredati e dati alle fiamme: i non-congregati erano individui deboli e codardi, il diritto al comprare il cibo o altri beni era solo per i forti e gli audaci. Chi osava protestare anche in modo infinitesimale, veniva portato nella piazza del paese e sgozzato davanti alla folla, poi mentre ancora essa era assiepata nello spiazzo senza possibilità di uscirne (pena la morte), alcuni congregati entravano nelle patetiche catapecchie in cui il popolo era costretto ad abitare, pagando con la stessa moneta chi, trovandosi là, avesse commesso il terribile reato di rifiutare lo spettacolo della giustizia. Si arrivò, in appena qualche anno, alla completa distruzione di ogni cosa, di ogni più piccolo frammento della civiltà che tanto faticosamente era progredita fino ad allora, e non ne rimase più niente. Fu un tracollo rapidissimo, che travolse tutto, perfino le Congreghe. Alcune vennero distrutte dall’interno dalle lotte, tra i congregati semplici e i capi, per cibo e beni di lusso che cominciavano a scarseggiare, data la distruzione delle attività produttive e distributive. La maggior parte delle bande tuttavia venne smantellata dai “sudditi”, che, ormai allo stremo delle forze e della fame, non avevano più nessun timore ad attaccare ed assassinare brutalmente altri esseri umani per rubare il loro cibo, o addirittura a compiere atti di cannibalismo. Alla fine del processo si ritornò all’età della pietra, non esisteva più la civilizzazione, la mente dell’uomo ormai analfabeta e ignorante era concentrata solo sulla sopravvivenza. Il pensiero umano delle migliaglia di anni precedenti era finito, perso per sempre, le poche tracce del passato venivano bruciate per riscaldare le fredde caverne in cui le persone si erano ridotte ad abitare. Non c’era più razionalità, solo la lotta per la vita. Si era arrivati ad un abbrutimento tale dell’umanità, che nessuno si accorgeva più della natura, e delle stelle; e del fatto che nell’estate di quell’anno, 2288, una piccola ma visibile cometa apparisse nel cielo nella costellazione del Serpente.

Dalla sua nave spaziale, rivestita da un ologramma raffigurante una cometa che serviva a non rivelarsi ai terrestri, il capitano Rew Paieka di Stoyl osservava con il megaingranditore cosa avveniva sulla Terra in quel momento. Da quando era arrivato, circa un mese standard prima, aveva compiuto almeno un osservazione per ogni giorno terrestri, ed ogni giorno sempre la stessa storia, la stessa brutalità, e non una traccia di civiltà. Tristezza e nostalgia lo avvolgevano sempre di più: si ricordava come fosse ieri quando, all’incirca trecento anni prima, si era imbarcato da cadetto esploratore, per la prima Osservazione dopo la scoperta che quel pianeta era abitato da una razza intelligente. Non poteva credere a quello che aveva visto: il pianeta era ricchissimo di forme di vita di ogni tipo, di luoghi e paesaggi meravigliosi, come pochi nell’intera Via Lattea. C’era anche una razza intelligente, l’uomo appunto, che pur essendo moralmente e tecnologicamente arretrata stava compiendo balzi da gigante in avanti; e la sua cultura era davvero affascinante e pittoresca, così diversa dalla maggior parte delle civiltà galattiche. Si ricordava ancora come il capitano Trikian, il “grande” Trikian, il personaggio che più di tutti aveva venerato in vita sua, gli aveva detto col suo solito tono mellifluo e avvincente che sarebbero dovuti ritornare meno di trecento anni terrestri dopo (stimati ad intuito), che sarebbero stati abbastanza avanzati da conseguire finalmente gli standard necessari a venir introdotti nella Confederazione Galattica, l’ istituzione che univa tutte le civiltà della Via Lattea in un'unica, democratica e pacifica lega. Duecentoottanta anni terrestri erano passati, e Trikian era morto (la vita degli Uyarr era molto breve, di media 80 anni standard), mentre Paieka, seppur fosse in assoluto (ma non relativamente) già più vecchio del capitano trecento anni prima, era ancora in vita, poiché l’esistenza degli Stoyliani durava in media sui 450 anni standard. Eppure, in quel lasso di tempo non era successo ciò che Trikian aveva previsto, anzi il pianeta era stato distrutto e l’incantevole civiltà era scomparsa. Invio le ultime osservazioni di quel lungo periodo di tempo (il minore necessario per una previsione) agli psicostorici alla sede di Arweel, il cosiddetto “pianeta degli scienziati”, poi decise che per quel giorno standard intergalattico era sufficiente.

Dopo alcuni giorni standard di silenzio, il cicalino del videocomunicatore a wormhole tornò finalmente a farsi sentire. Era il direttore generale della facoltà di psicostoria di Arweel, Qenteyr Majeriv, che lo fissava nello schermo con quei suoi piccoli e grotteschi cinque occhi da Ertane. Rispose subito, e apprese che gli stavano per arrivare sul computer le conclusioni dei loro studi. Paieka chiuse e si mise al computer, mentre gli appariva il testo dell’analisi. Di certo non capiva nulla dei calcoli complicatissimi degli psicostorici, ma quello era un documento scritto in modo comprensibile a chiunque, e non lasciava dubbi: il pianeta Terra non si sarebbe mai risollevato da quello stato di barbarie, o meglio si sarebbe rialzato ma solo per poi ricadervi, e poi ancora, in un circolo senza fine di sollevazioni e cadute sempre più distruttive. Con l’acqua che gli zampillava dalla punta del cranio in piccoli ruscelletti, in segno di estrema tristezza, Paieka decise infine di chiedere l’autorizzazione per applicare, per la prima volta nella storia della Confederazione, il protocollo n. 512. Sapeva che era una decisione che lo avrebbe reso infelice, ma del resto non aveva scelta: non poteva permettere quella situazione, doveva riuscire a cambiare qualcosa, e la legge intergalattica, molto più basata sul sentimento di quella umana originale, glielo permetteva. L’Alto Consiglio Confederale, sul pianeta capitale Doras non ci mise che poche ore standard per decidere, e alla fine gli venne data l’approvazione definitiva. Piangendo, il capitano premette vari tasti sullo schermo, e alla fine si aprì una finestra che indicava il conto alla rovescia di 15 Thrin standard. Sembrarono passare ore e ore standard, mentre Paieka guardava per l’ultima volta la sfera azzurra che si stagliava netta, attraverso l’ingranditore sul vetro anteriore. Poi il contatore andò a 0, e in un attimo, il globo sparì, sostituito da una nube atomica appena visibile sullo sfondo stellato. Infelice come non mai, ma con il cuore in pace dopo quell’atto di pietà, Paieka cominciò ad avviare la procedura per tornare a Doras; e mentre la nave esplorativa apriva lo wormhole, solo le particelle generate dal dissociatore atomico galleggiavano nello spazio, ricordando il luogo dove un tempo cultura e civiltà avevano dominato. Era la fine di tutto, causata solo dalla sciaguratezza dell'uomo. La fine…

domenica 14 giugno 2009

Cambiamento importante

Ho deciso di cambiare il titolo del blog. L'altro ormai mi andava un po' stretto visto che, pure se ancora abbastanza solitario, ho cominciato un po' ad aprirmi al mondo, e la cosa mi rende abbastanza soddisfatto. Ho scelto questo titolo perché, oltre ad essere una stupenda canzone dei Black Sabbath, mi rappresenta. Scrivo spesso di apocalisse e di disastri vari, quindi la "mano del destino" è una buona descrizione per la destra, quella che scrive (in realtà scrivo al computer con entrambe le mani, ma non è importante).

P.S. A breve posterò il nuovo racconto.

domenica 31 maggio 2009

Romanzo

Di ciò che ho scritto nei giorni in cui sono stato assente, ho pubblicato molto poco, come si è visto. Questo perché mi sono concentrato molto sulla scrittura di un romanzo, il mio primo (ci sono stati altri esperimenti di romanzo ma sono naufragati, questo invece credo che lo continuerò), una specie di storia ad ambientazione medievale. Ho già pronti 2 capitoli e il terzo lo scrivo ora. Questi capitoli sono davvero troppo lunghi per essere postati qui sul blog, perciò li invierò solo ed esclusivamente a quelli che me ne faranno richiesta (magari nei commenti), via mail. Ogni tanto aggiornerò qui sul blog lo stato dei lavori.

giovedì 21 maggio 2009

2009: Odissea Nel Terrore

Dopo una lunga assenza dovuta al fatto che non ho più la connessione internet (di nuovo), torno a postare un mio racconto. Lo dedico alla mia lettrice Chiara, a cui piacciono i racconti dell'orrore che scrivo. Inoltre, giusto per puntualizzare, sottolineo che questo racconto lo avevo in mente da tempo, e che 2001 Odissea nello Spazio è il mio film preferito, perciò ho deciso di scrivere una cosa del genere. Spero sia di vostro gradimento.

2009: Odissea Nel Terrore

Era stata veramente una giornata dura e faticosa per Chiara: i corsi dell’università e poi lo studio intenso del pomeriggio l’avevano veramente sfiancata, ad un livello inverosimile. Tutte quelle complicate materie erano veramente sfiancanti, e seppur amasse ciò che studiava, non ne poteva veramente più. Gli esami si avvicinavano sempre più, e anche quella sera, dopo la cena, avrebbe dovuto studiare, o almeno questo voleva. Ma era veramente stanca, e se ne accorse dopo aver sfogliato il libro di chimica analitica che aveva davanti, dopo il pasto. Le cose non le entravano in testa, per quanto le ripassasse mentalmente. Alla fine cedette, e, un
 po’ depressa, andò nel salotto deserto: quel giorno la sua amica Laura le aveva prestato il DVD di “2001: Odissea Nello Spazio” di Stanley Kubrick. Lei lo aveva già visto una volta, quel film, ma era passato un bel po’ di tempo da allora e non ne ricordava più la trama, a malapena rammentava che il finale le era piaciuto, quella volta. Inoltre poco tempo prima uno dei suoi amici di chat le aveva raccontato che era il suo film preferito, facendole venire voglia di rivederlo.
  Quando l’amica, il giorno precedente, gliene aveva parlato in maniera esaltante dopo averlo acquistato , lei non si era fatta sfumare l’occasione, e le aveva subito chiesto in prestit
o il DVD. Ed ora era lì, nel salotto, a fissare quella copertina, completamente nera con una specie di occhio
 rosso meccanico (anche se non ricordava cosa fosse quell’oggetto) che per qualche strano motivo le suscitava una qualche tipo di bislacca attrazione. Rimase per un po’ a fissarla, poi si riscosse e inserì il disco nel lettore: non si rendeva ben conto del motivo, ma aveva una gran voglia di godersi il film, tanto che sembrava quasi che la stanchezza
 fosse diminuita.

Comprese subito che il monolito nero conferiva l’intelligenza alle scimmie, e capì come esse usassero le loro nuove facoltà per uccidere le prede: il suo cervello funzionava ancora bene, nonostante la spossatezza. Da grande amante della musica classica quale era, Chiara gradì moltissimo le scene in cui le astronavi, in modo molto poetico, danzavano nello spazio al ritmo di “Sul Bel Danubio Blu” di Johann Strauss figlio. Seguì poi  con piacere la storia del computer HAL 9000 (colui al quale apparteneva il non più misterioso occhio rosso) e dell’equipaggio della Discovery, riuscendo perfino a cogliere l’analogia che il film faceva tra lo conflitto iniziale tra le scimmie per la pozza d’acqua e, alla fine, quello per la vita tra David Bowman e il computer, tutte e due a simboleggiare la lotta per la sopravvivenza. Il film si sviluppò per le sue oltre due ore di durata in modo lento, ma mai noioso; a contribuire a mantenere un livello altissimo bastava la fotografia, che alla ragazza sembrava tra le più belle che avesse mai visto. Riuscì ad apprezzarlo senza alcuna difficoltà dovuta al sonno, quel film la stava veramente incantando. Poi arrivò il finale, quello di cui lei serbava ricordo. Ricordava quella specie di viaggio acido che durava interi minuti, tutti quei colori che si ammassavano e cambiavano, quelle catastrofi cosmiche gigantesche. Ancora una volta, vide quella sequela di immagini meravigliose e psichedeliche, intervallate dagli inquietanti fotogrammi che mostravano la faccia terrorizzata dell’astronauta Bowman. Non erano solo semplici immagini, quelle, lei lo sentiva: le facevano uno strano effetto, era come se la giovane avesse assunto degli allucinogeni, fatto sta che rimase realmente affascinata davanti a quelle immagini bellissime e insensate, quasi in trance. Cominciò a ondeggiare cullata dai colori impossibili e dalle infinite forme che parevano quasi uscire dallo schermo per entrarle nella fronte e rimbalzare in tutto il cervello producendo sensazioni piacevoli. Le dispiacque quasi quando, dopo un po’ di tempo, la sequenza finì.

Alla conclusione del viaggio oltre l’infinito, l’astronauta era tornato alla realtà, e si trovava in una cattedrale gotica. Anche Chiara si riscosse dallo stato d’animo esaltati che aveva appena sperimentato: e, riportando alla memoria la proiezione passata, realizzò improvvisamente che l’astronauta, l’altra volta, era arrivato, invece, in un hotel, forse un po’ demodè, ma che sicuramente non assomigliava nemmeno lontanamente ad una cattedrale. Rifletté un momento: non era possibile che i suoi ricordi fossero confusi? No, si disse, ricordava molto chiaramente il finale. L’unica spiegazione era che per sbaglio, mentre si muoveva confusamente sotto l’influsso del trip psichedelico, aveva urtato il telecomando accidentalmente, cambiando canale. Rapida, si mosse a riprenderlo da dove lo aveva lasciato, sul bracciolo del divano, per tornare al DVD e godersi il finale. Ma vide che non c’era più alcun bracciolo: era seduta non più sul suo sofà, ma su una panca di scomodo legno. E non solo: guardandosi attorno, vide che il salotto non c’era più, la sua casa era sparita chissà come, e si trovava nella cattedrale gotica che aveva visto nello schermo, mentre di Bowman non c’era più traccia. Era sparito tutto ciò che le era familiare, al posto delle finestre da cui filtrava la pallida luce della luna erano apparse gigantesche vetrate pitturate che, illuminate dal sole, proiettavano vivaci colori sul pavimento; ne c’era più il normale soffitto, che era una cosa tanto banale quanto importante per la giovane in quel momento di disorientamento estremo, sostituito da un alta volta composta da arcate a sesto acuto. Sbigottita per ciò che le stava accadendo attorno, Chiara ebbe un grosso sobbalzo quando, come dal nulla, risuonò cupo il suono dell’organo. Era una melodia molto familiare, la famosissima e alquanto tetra “Toccata e Fuga in Re Minore” di Johann Sebastian Bach; e la ragazza vide che in fondo all’abside, davanti alla tastiera, sedeva, dandole le spalle, l’organista, all’apparenza una donna di alcuni anni più vecchia di lei. Le ci vollero alcuni minuti per vincere lo spavento che l’ignoto le stava causando, ma alla fine riuscì a ritrovare una relativa calma. Decise allora di muoversi, e di andare a parlare con l’organista, per chiederle qualche informazioni. Arrivò nell’abside, e con gentilezza le chiese dove si trovava. La donna si girò, e con sgomento Chiara provò la sensazione di guardarsi in uno specchio. Certo, la donna che aveva di fronte era una quarantenne, il volto era rigato da piccole rughe e già mostrava qualche capello bianco in testa, ma non c’erano dubbi, quella era la sua copia perfetta. Poi la ragazza si sentì svenire, ma solo per un istante: eppure, quando dopo un attimo riprese conoscenza, aveva cambiato posizione, e con estrema paura si accorse di essere seduta davanti alla tastiera dell’organo, e di essere girata all’indietro guardando il vuoto dove prima si trovava.

Chiara ora ricordava alla perfezione il finale di 2001: Ed era terrorizzata perché le stava accadendo la stessa cosa. Invecchiava ad un ritmo impressionante, vedeva persone sempre più anziane sedute sulle panche della cattedrale o che passeggiavano tranquille attraverso i colonnati che delimitavano le navate, e poi, come per magia, diventava lei stessa quelle persone. Alla fine, quando ormai era già avanti con l’età, vide una figura, dall’aspetto molto malandato, sdraiata ai piedi degli scalini che salivano fino all’altare, che respirava rumorosamente e con fatica. Non ebbe nemmeno il tempo di spaventarsi, che i polmoni le bruciavano, e vedeva solo l’alta e spoglia volta della cattedrale. Ripensò al finale del film, e si disse che da un momento all’altro sarebbe apparso il monolito nero, e lei sarebbe rinata come una Starchild, una bambina di puro spirito senza corpo. Ma non accadde, e lei rimase lì sul pavimento per quelle che sembrarono ore, soffrendo e lottando per non venir meno. Alla fine, però, allo stremo delle forze, perse conoscenza.

Si riprese che ogni dolore era sparito. Sollevata, Chiara aprì gli occhi, ma fu inutile: si trovava in un posto completamente buio, anche se in lontananza scorgeva dei piccoli bagliori appena visibili, come deboli stelline, che si muovevano velocemente verso l’alto. Non erano loro, però, a spostarsi, bensì la ragazza sapeva, in qualche modo a lei sconosciuto, di star precipitando nel vuoto. E man mano che precipitava il calore si faceva sempre più intenso, un calore che più che nell’aria sentiva all’interno del proprio corpo. La giovane si spaventò molto, di quel luogo claustrofobico e orrido, e il timore crebbe ancora, quando nell’oscurità iniziarono a echeggiare lamenti addolorati e orribili urla che facevano ghiacciare il sangue nelle vene. Ad un certo punto, dopo diversi minuti, mentre sembrava che la discesa fosse ormai finita  e la ragazza fosse come sospesa nell’aria, il calore si fece veramente insopportabile, quasi doloroso: e in quel momento, in tutta quelle tenebre, un’intensa luce la accecò. Il terrore la colse: i suoi arti stavano letteralmente bruciando, lingue di fuoco giallo divoravano le braccia e le gambe. Presa da un’estrema paura, urlò, e tentò di rotolarsi in terra per spegnere le fiamme, ma non c’era nessun suolo. Il dolore si faceva sempre più intenso, e le fiamme ardevano man mano più calde e bruciavano una sempre maggiore parte del suo corpo. Tentò in tutti i modi di spegnerle, ma ogni sforzo fu inutile: alla fine, completamente avvolta dalle fiamme, si arrese alla disperazione, e si lasciò andare all’inevitabile. Fu allora che, con la coda dell’occhio, vide apparire un essere, minuscolo in principio ma che si avvicinava a gran velocità, finché in pochi secondi non le fu abbastanza vicino da poterlo toccare. Era una piccola creatura con una grande testa e occhi enormi e inquietanti che la osservavano inespressivi: seppur angosciante, oggettivamente non aveva nulla di spaventoso, ma Chiara venne colta dal panico e con un ultimo sforzo di volontà riuscì a girarsi in aria e fuggire. Poi accadde qualcosa di strano, e il paesaggio cambiò ancora una volta.

Ora il braccio sinistro era indolenzito come dopo una caduta, mentre il resto del corpo non conservava traccia del dolore. In effetti si ritrovava sdraiata su una superficie con il ventre rivolto verso il basso. La ragazza si tirò su con un po’ di fatica, e girandosi supina vide che l’essere spaventoso era ancora lì. Si spaventò nuovamente, ma solo per un attimo: non era altro che lo Starchild: Stava guardando gli ultimi secondi del film, che poi terminò con il reiterato tema iniziale del “Così Parlò Zarathustra” di Richard Strauss e quindi i titoli di coda. Chiara realizzò che tutto ciò che aveva visto non era stato altro che un sogno, un incubo come ne aveva già avuti in precedenza, anche se questo era stato tanto impressionate da colpirla in modo particolare. La ragazza capì che incubi del genere erano dovuti alle sue giornate troppo faticose, erano segnali che il suo corpo le mandava per sottolineare lo stress attraverso il mezzo onirico: così, dal giorno seguente in poi, seppur continuando a studiare intensamente, non arrivò mai più ai livelli che aveva raggiunto in quei mesi.

lunedì 6 aprile 2009

Terremoto

Ho scritto questa poesia dopo aver appreso dei fatti del L'Aquila. Mi ha colpito molto questa tragedia, forse perché anche io ho provato sulla mia pelle, seppure senza riportare danni, cosa vuol dire un terremoto vicino (parlo di quello Umbro-Marchigiano del 1997), forse perché l'entita dei morti, seppure decisamente inferiore ad altri eventi simili che avvengono nei paesi del terzo mondo, è comunque notevole; quello che so è che mi dispiace immensamente per tutte le vittime di questo disastro, e sono molto vicino ai sopravvisuti. Per questo, come già avve nel caso di Eluana, ho deciso di scrivere una poesia, che dedico a tutti i morti di questa orribile tragedia come un elegia commemorativa. Spero che non la troviate troppo macabra o irrispettosa e comunque che vi piaccia.


Terremoto

 

Sembrava una notte come tante

Quella di ieri

La gente dormiva placida e ingenua

E le stelle splendevano tranquille.

 

Ma la Terra, la madre che ci creò

Può non essere sempre benevola 

E in modo imprevedibile

Senza alcun motivo

Si scagliò con violenza sull’Abruzzo centrale

 

Le porte dell’inferno allora si aprirono

Scuotendo la terra.

E, come animate da terribili demoni

Molte abitazioni, che fino ad allora

Erano luoghi protettivi,

Si rivoltarono contro i loro abitanti

Seppellendoli.

 

Solo alla mattina

La tragedia venne rivelata:

Cumuli di macerie ovunque

E altre strutture talmente lese

Che lo sarebbero diventate a breve

E i superstiti, ormai senza casa

Vagava per le strade

Senza meta, con solo negli occhi

L’orrore

 

Ai miei occhi

E non solo ai miei

Una tragedia terribile.

 

Per questo sarebbe meglio

Ricordare le vittime

Che siano morti,

O sepolti vivi

O abbiano perso la casa

Bisogna aiutarli

Per quanto possibile

 

Perché tutto ciò poteva capitare

A ciascuno di noi…