Dopo la settimana del primo maggio e relativo weekend, pensavo davvero che sarei riuscito ad avere un po' più di tempo libero da dedicare ai miei progetti. Già, pensavo. La settimana scorsa è stata ancor più piena e occupata delle solite, purtroppo, perciò davvero non ce l'ho fatta a buttar giù nemmeno due righe in croce. Stavolta però non mi andava di far saltare ancora una volta il post del martedì: ecco quindi che ho deciso di postare il racconto di cui parlavo nell'incipit del precedente L'amore ai tempi di Amazon, da me accantonato perché non mi convinceva. Leggendolo, capirete anche il perché: è infatti un racconto che contiene idee abbastanza "impopolari", almeno tra un certo tipo di persone, che poi sono tra l'altro le mie idee sull'argomento. Spero vi piaccia lo stesso.
Macchia
La sua vita era stata una pacchia sin da quando si ricordasse. I suoi giorni trascorrevano lenti e tranquilli, con due pasti abbondanti al giorno e tanto riposo nel mezzo. Forse c’era un po’ di noia, ma per lui non era un problema: amava ogni più piccolo angoletto di quella sua vita. Gli piaceva scorrazzare nel suo rifugio, amava i pochi contatti che gli erano concessi coi suoi simili, ma soprattutto gli piacevano quei giganti, che gli portavano il cibo, lo pulivano e lo coccolavano, esseri quasi divini che splendevano di un bianco acceso. “Macchia” lo chiamavano loro, anche se per lui questa parola non aveva alcun significato: il suo suono però lo rassicurava e lo faceva sentire bene, ogni volta che veniva pronunciato. L’unica cosa che invece lo metteva un pochino in agitazione erano gli sproloqui del più anziano dei suoi simili, quello che chiamavano “Neve”. Quando erano tutti insieme, come un ossesso quel vecchio acido non faceva altro che raccontare strane storie: al di fuori di quel luogo di piacere e di gioia, diceva Neve, c’era invece un mondo crudele, in cui i pericoli erano dietro l’angolo e la vita appesa ad un filo. Neve raccontava poi che tutti i loro antenati provenivano proprio da quel mondo, e che il loro gruppo per qualche motivo era stato eletto dai giganti divini, che li avevano condotti in quel paradiso. Seppur quelle storie emotivamente lo turbassero, Macchia non riusciva nemmeno ad immaginarsi una cosa del genere, e come tutti gli altri tendeva a considerare Neve uno con troppa fantasia e qualche rotella fuori posto; venne però un giorno in cui sbatté il muso contro il fatto che si era sbagliato, e di grosso…
«Ecco, io proprio non capisco, Tony: come fai a continuare a mangiare il formaggio senza sentirti in colpa?» disse Stefano, alzando la voce.
«Ste’, ma che te ne importa?»
«Mi importa, eccome! Lo sai come le tengono le mucche, negli stabilimenti per il latte? Segregate in spazi strettissimi, lì ferme senza mai far vedere loro la luce del Sole. Non ti disturba, questo?»
«Ma…» cominciò Antonio
«Nessun ma! Non c’è nemmeno un motivo valido per mangiare formaggio, visto che puoi assorbire gli stessi elementi nutritivi dalle verdure. Eppure lo dovresti sapere meglio di me, che l’essere umano è l’unico animale che beve latte anche da adulto: non crederai alla balla degli specisti secondo cui questo è un fatto naturale, vero?»
«Io non lo so davvero, se sia una balla o meno. Insomma, io non mangio più carne animale, ma non credo proprio che mangiare il formaggio sia sbagliato.»
«Non ami forse gli animali quanto noi? Perché se vuoi puoi anche rimanere in macchina, mentre noi andiamo.»
«Lo sai che li amo quanto te. Semplicemente, abbiamo qualche idea diversa, non puoi essere un po’ tollerante?»
«Le idee dannose non sono accettabili, quindi nessuna tolleranza, mi dispiace.»
«Se avete finito di bisticciare come bambini voi due lì dietro, saremmo praticamente arrivati» fece con irritazione Giuseppe dalla parte anteriore dell’auto, mentre cominciava a rallentare.
«Siete pronti?» chiese Mario dal sedile del passeggero, per poi riprendere, una volta che tutti ebbero assentito:
«Ok, allora mettete i passamontagna. Entriamo.»
I quattro uomini scesero dalla vettura ed a passo veloce si diressero verso il cancello, bloccato da un semplice catenaccio, che cedette subito alle tronchesi di Mario. Il gruppetto camminò quindi come stabilito verso la porta più vicina dello stabile che sorgeva in mezzo al cortile, accanto a cui era affissa la targa “Istituto di ricerca medica “L. Pasteur”. In breve riuscirono a forzare anche quella, e furono dentro al laboratorio. A quel punto i quattro si divisero per cercare gli animali: Stefano si diresse verso il corridoio che si apriva a sinistra, ed in breve ebbe successo.
«Li ho trovati» urlò, facendo accorrere gli altri. Si ritrovarono in una stanza la cui parete di fondo era del tutto ricoperta da gabbiette, dove placidamente un gran numero di topi bianchi si muovevano confusi.
«Poveracci, cosa vi hanno fatto? Non vi preoccupate, però, ora vi liberiamo tutti» disse Stefano, cominciando ad armeggiare sulla cerniera che teneva chiusa la gabbia più vicina. I suoi compagni si unirono a lui, e rapidamente riuscirono ad aprire le gabbiette, facendo sciamare i roditori al di fuori.
«Hai visto questo? Ha una macchia a forma di stella sulla testa, che carino!» disse Antonio, spalancando una delle ultime gabbie
«Più che carino direi che è un martire! Chissà cosa gli hanno fatto quei bastardi per fargli avere quella macchia, avrà subito chissà quali torture. Ma ora è libero. Siete tutti liberi!» disse, proprio mentre Mario spalancava l’ultima gabbia.
Macchia si sentiva spaesato e terrorizzato, la testa gli girava come mai gli era successo prima. Era stato svegliato all’improvviso nella notte da una confusione di luci e di suoni, che lo avevano agitato moltissimo; poi il suo rifugio era stato aperto da un gigante che non conosceva. C’era qualcosa di pauroso in lui: era scuro e non aveva la solita aura luminosa, ma era la voce alta che usava a spaventare maggiormente Macchia. Il gigante lo aveva preso e poi lo aveva lasciato andare, e seguendo istinto lui aveva seguito i suoi compagni, correndo fuori dal suo ambiente. Si era presto ritrovato da solo in un luogo con pochissima luce e con una temperatura fredda come non ne aveva mai sentite, ed aveva così compreso mestamente che Neve non era un folle. Aveva continuato a muoversi in preda all’angoscia per moltissimo tempo, ed ora si sentiva stanco e rassegnato: non gli sembrava di arrivare da nessuna parte e non sapeva come tornare indietro. Forse avrebbe fatto bene a rimanere poco lontano dal suo ambiente e a tornarci, ma in quei momenti di panico non ci aveva pensato, l’unica sua preoccupazione era fuggire il più lontano possibile da lì. Ed ora si trovava lì, sperduto in mezzo al nulla, con il freddo e l’ansia che lo facevano tremare. Continuò pian piano ad avanzare, finché ad un tratto non avvertì un odore. Non ne aveva mai sentito uno del genere, ma era dolce e molto buono: il nervosismo si trasformò all’istante in appetito, così decise subito di seguire la traccia olfattiva. Si avventurò in campo aperto e poi si ritrovò a dover percorrere delle strette gallerie, in cui passava appena, ma avanzò deciso. Si ritrovò quindi di nuovo allo scoperto, davanti all’imboccatura di un altro tunnel: l’odore era divenuto nel frattempo fortissimo, doveva trovarsi poco oltre quell’imboccatura. Macchia vi si infilò a fatica, quel posto era veramente angusto, ma alla fine riuscì a raggiungere il cibo: cominciò allora a divorarlo a grandi e avidi morsi. Anche il sapore era strano ma buono, tuttavia dopo qualche morso lo stomaco cominciò a fargli male. Il dolore divenne rapidamente tremendo, finché fu troppo atroce da sopportare: Macchia cacciò un tremendo urlo di dolore e di paura, prima che i sensi gli venissero meno.
Luca non aveva mai voluto seguire le orme del padre nella sua azienda di derattizzazione. Dopo anni passati a cercare un qualsiasi lavoro senza successo, saputo che l’azienda del genitore si sarebbe allargata con l’ingresso di un dipendente, aveva chiesto di entrare. Così, da circa una settimana seguiva suo padre in giro per le varie aziende alimentari della zona, imparando il mestiere.
«Natur-food s.r.l.. Non ho mai sentito questo nome.» disse leggendo l’insegna del capannone che gli era toccato quella mattina.
«E’ un’azienda che si occupa di cibo per vegetariani o non so cosa; almeno, questo mi hanno detto quando mi hanno contattato.» disse suo padre, smontando a sua volta dal pickup. Si diressero insieme all’ingresso e poi verso la zona in cui si trovavano le trappole, poco lontano dalla zona in cui una dozzina di operai lavorava alle catene di montaggio. I due fecero fermare per un attimo i lavori, come le norme igieniche imponevano, poi cominciarono ad aprire le trappole che erano allineate lungo il muro.
«Guarda questo quant’è grosso! Mi è capitato raramente di vederne di così grandi!» fece suo padre con tono scherzoso, alzando il braccio e mostrandogli un enorme ratto tutto bianco, con una sola macchia nera sulla testa, vagamente a forma di stella.
«E’ anche parecchio pulito, per essere un topo di fogna. Da dove viene, secondo te?» chiese incuriosito Luca, guardandolo da vicino. Se all’inizio quello spettacolo lo avrebbe disgustato, ora ci era abituato.
«Chi lo sa, ma che importa? Piuttosto, sbrighiamoci, che poi dobbiamo passare al distretto sanitario e non voglio fare tardi.»
Continuarono a svuotare e sistemare le trappole finché le esche non furono tutte rimpiazzate e i cadaveri dei roditori furono tutti al sicuro nei sacchi per lo smaltimento.
«Perfetto! Tu porta tutto nel furgone, io vado a far firmare le solite scartoffie al proprietario e poi arrivo, questione di due minuti» ordinò il padre a Luca, prima di andarsene.
“Una ventina di topi: parecchi, anche se forse questo è niente rispetto a quelli che hanno ucciso nei campi. Non è ironico, che anche i più convinti tra i vegetariani non possano non sterminare degli animali per mangiare?” si chiese tra sé il giovane, prima di sollevare sulle spalle l’armamentario e dirigersi verso l’uscita del capannone.
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