Dopo quattro lunghi mesi dall'ultima novella postata, finalmente riesco a postarne una nuova, o meglio: questo racconto non è proprio nuovo, forse l'ho scritto più di due anni fa, ma poi l'ho accantonato (per un motivo che non sto a spiegarvi). Un mese fa lo ho ripreso, e l'ho modificato secondo il mio stile aggiornato, ossia cercando di correggere i miei difetti cui parlavo nel post di circa un mese fa, oltre comunque a togliere tutte le espressioni del mio stile acerbo di allora. Il risultato è questo, un racconto di fantascienza basato sul viaggio nel tempo che a me piace, ma come al solito dovete giudicare voi, anche se spero vi piaccia.
Muovendo guerra al passato
Hugo Rodriguez stazionava, fieramente impettito nella sua divisa da parata, presso l’uscio di casa, mentre la sua famiglia salutava con gioia il suo ritorno. Erano passati cinque lunghi anni da quando era partito per l’accademia militare, senza mai rincasare poi per tutto quel tempo: ora, perciò, voleva solo assaporare ogni istante della licenza di cui disponeva, lunga appena due settimane, dopo la quale sarebbe dovuto partire direttamente per andare in guerra, come ben sapeva. La leva non era obbligatoria, nonostante la scarsità di persone disponibili: ma Hugo si era lo stesso arruolato volontariamente, con entusiasmo addirittura, perché ciò che più di ogni altra cosa desiderava era seguire le impronte di suo padre, un veterano decorato addirittura generale per l’eroismo dimostrato nella Guerra dei Dieci Giorni. Combattere non lo allietava affatto, preferiva di gran lungo le missioni di pace all’impegno in battaglia, ma era comunque conscio che in ogni caso bisognava anche compiere il proprio dovere, e lui certo non si sarebbe tirato indietro. Inoltre, in quel frangente aveva deciso di non pensare affatto al futuro, la sua mente doveva essere del tutto sgombra per godersi le due settimane di relax assoluto che sarebbero arrivate poi; o almeno ci provava, visto che dopo aver trascorso una serata spensierata, a letto il giovane si scoprì a riflettere proprio sul conflitto imminente, così intensamente che non lo lasciava dormire. Continuava invece a tornare col pensiero a tutto ciò che i maestri a scuola, e suo padre a casa, gli avevano raccontato, sin da quando era un bambino.
La Terra, in quei primi anni del ventitreesimo secolo, era per gran parte devastata: dagli otto miliardi di persone che la abitavano nel ventiduesimo si era passati, nel corso della sanguinosissima Guerra dei Dieci Giorni, ad una popolazione totale non superiore al mezzo miliardo. Un giorno di ventotto anni prima, senza preavviso, un gran numero di astronavi dallo strano aspetto erano apparse come dal nulla nei cieli di tutto il mondo; da esse, era disceso velocemente uno sciame di piccole navette, ed in brevissimo tempo un immenso esercito di extraterrestri estremamente bellicoso era sbarcato sul pianeta, cominciando a distruggere ogni cosa al suo passaggio, mentre gli umani cercavano di contrastarli, ma invano, a causa delle particolari armi energetiche del nemico. Come il nome stesso diceva, il conflitto era durato solo dieci giorni; poi gli alieni, che avevano compiuto violenze e massacri senza sosta, erano stati spazzati via dal contrattacco dei sopravvissuti, con un espediente peraltro estremamente semplice: si era scoperto casualmente, infatti, che in alte concentrazioni il vapore acqueo era estremamente tossico per gli alieni. Nel giro di appena un giorno, miliardi di litri d’acqua furono così vaporizzati, ed un’unica coltre di fitta nebbia (che persistette poi per molti giorni) ricoprì la Terra intera, sterminando gli invasori; il giorno successivo fu quindi il turno delle navi madri in orbita, bombardate ed abbattute. La guerra era vinta, ma a quel punto appena il sei percento della popolazione precedente restava ancora in vita; e, per giunta, larghe zone del pianeta erano rimaste contaminate da veleni e radiazioni, risultando perciò ancora inabitabili anche tanto tempo dopo.
Da allora erano passati molti anni, e nel frattempo l’umanità si era riorganizzata, cominciando di nuovo a produrre conoscenza; e, in particolare, erano state le tecnologie militari a progredire di più, sotto la spinta del timore (forse fondato, forse no) che il nemico potesse tornare ad attaccare. Era avanzata però anche la scienza: e tra le tante scoperte. negli anni, la più grande era stata la dimostrazione di come la possibilità teorica del viaggio nel tempo potesse essere sfruttata nella pratica, persino con relativa semplicità. Ad un lustro da tale scoperta, si mise a punto un piano che prevedeva di sfruttarla al fine di tornare nel passato e cambiarlo in meglio: le armi sviluppate nel frattempo avrebbero fatto piazza pulita degli alieni ben facilmente, e le nuove corazze ioniche avrebbero annullato ogni efficacia delle armi nemiche. Vista questa pressoché totale assenza di rischi, il progetto era stato accettato quasi unanimemente nel mondo, ed in ogni nazione erano stati addestrati corpi scelti e qualificati all’uso delle nuove tecnologie. Era lì che entrava in gioco Hugo: nonostante suo padre, pur essendo stato un combattente, si fosse fermamente opposto alla sua entrata in un’unità di quei corpi, il giovane vi si era fatto inserire lo stesso, perseverando testardamente nel suo intento. Alla fine, vedendo che ogni tentativo di dissuaderlo era vano, il padre aveva accettato le sue condizioni, ed ora era assolutamente fiero del figlio, seppur ogni tanto, nel suo atteggiamento verso di lui, sembrasse permanere ancora qualcosa di poco definibile, di non detto. Ora, mancavano due sole settimane alla partenza per il passato: ed Hugo, nonostante tentasse di negarlo, in ogni caso sentiva molto quest’incombenza, provando un misto di emozioni che, oltre a rendergli estremamente difficile il sonno, non riusciva a districare tra loro.
Nei giorni successivi, Hugo ebbe la possibilità di passare molto tempo con la propria famiglia e di svagarsi, distraendosi così da tutti i possibili pensieri e le possibili ansie; le due settimane di permesso sembrarono perciò trascorrere molto in fretta, ed il giorno della partenza giunse in un lampo.
Mentre la famiglia al completo lo scortava verso lo spazioporto, Hugo sentiva ogni sua emozione totalmente amplificata. A dominarlo, soprattutto, era il timore: nonostante ciò che sapeva sulla sicurezza della missione, il suo lato emotivo ed irrazionale era comunque decisamente sollecitato dall’immensità dell’impresa che stava per compiere, e l’angoscia era quanto di più naturale ci potesse essere. Il grande spazioporto di Città del Messico era gremito di famiglie, che salutavano i propri cari in partenza, tra arrivederci e lacrime; anche sua madre e le sue due sorelle piangevano, ma Hugo le rinfrancò: non dovevano preoccuparsi assolutamente, sarebbe tornato sano e salvo. Loro che aspettavano, per giunta, avrebbero percepito solo un’ora tra la partenza ed il ritorno; per questo, non avrebbero dovuto aspettarlo che poco tempo, e per quanto lo riguardava potevano persino non salutarlo. Più in generale, i suoi familiari dovevano stare tranquilli: Hugo sarebbe tornato da vincitore, avendo spazzato via il nemico dall’universo; così disse egli alla sua famiglia, rassicurando al contempo anche se stesso. Salutati quindi padre, madre e sorelle, il giovane si avviò verso le astronavi con un po’ di batticuore, cercando quella a cui era stato assegnato. Appena concluso l’imbarco, le navi accesero simultaneamente i propri motori, sollevandosi nel cielo in formazione compatta; nel frattempo, Hugo guardava la Terra allontanarsi velocemente dall’oblò accanto al suo posto. Vide così le zone brulle e contaminate dalla guerra, e promise a se stesso, nell’intimo, di impedire che ciò potesse succedere, cancellando totalmente la linea temporale in cui il suo pianeta subiva quel disastro. Il gruppo di navi si stabilizzò in orbita bassa intorno alla Terra: poi vennero avviate le procedure che aprivano lo wormhole temporale, dal quale subito dopo l’intero schieramento venne inghiottito in simultanea con le navi di tutti gli altri paesi, sparendo dai cieli dell’anno 2202.
Dopo un breve ma turbolento viaggio, le astronavi spuntarono nello spazio del 2174, cominciando subito a girare intorno alla Terra del passato. Il nemico sarebbe dovuto apparire esattamente quattro ore dopo, secondo la cronologia con cui la missione era stata programmata; tuttavia, all’ora prestabilita, inaspettatamente non avvenne proprio nulla. I minuti trascorsero lenti ed ansiosi, trasformandosi in ore, ma non un allarme venne lanciato, da nessuno. L’attesa si fece spasmodica ed ansiosa, mentre anche le ore passavano ed ancora niente di anomalo accadeva; e, dopo una mezza giornata sul chi vive, visto lo stato di ansia imperante e sempre crescente, i generali che comandavano la missione decisero di intimare il riposo a tutti i soldati, lasciando solo delle sentinelle a vegliare sulla situazione.
Tre giorni di pacifica allerta trascorsero senza che alcun fatto di rilievo avesse luogo; allo scadere dell’ultimo, il comando generale della missione venne riunito, per analizzare nel dettaglio quella situazione così strana. La prima conclusione a cui si arrivò in tale conferenza fu che, con ogni probabilità, prima dell’attacco nei dintorni della Terra doveva esservi un qualche tipo di vedetta aliena, una specie di avanguardia invisibile: avendoli avvistati da lontano, ed avendone valutato l’immensa forza, gli extraterrestri avevano così probabilmente rinunciato a tentare una qualsiasi azione di attacco. Stabilito questo, venne anche deciso come sarebbe proseguita la missione: si sarebbe attesa una settimana per sicurezza, fino alla fine di quella che nell’altra linea temporale era stata la Guerra dei Dieci Giorni; poi, se ancora nulla fosse accaduto l’intero contingente militare sarebbe tornato nel futuro, contando sulla speranza che gli alieni, avendo considerato la propria inferiorità, non osassero mai più avvicinarsi alla Terra, nemmeno in futuro.
Mancavano poche ore alla nuova partenza, ma prima di andarsene i quadri di comando ordinarono una missione di ricognizione sul pianeta, giusto per avere l’assoluta certezza che nulla lì sotto stesse eventualmente succedendo, e fosse sfuggito sino ad allora. Tra quelli che si proposero volontari, vi era anche Hugo: ormai stufo della noiosa monotonia respirata in quei dieci giorni a bordo della nave, desiderare fare qualcosa di diverso, specie se così interessante. Gli venne affidata una delle inutilizzate navette monoposto corazzate progettate per il combattimento nello spazio; poco dopo, il giovane volteggiava nel vuoto, cominciando sin da subito a scendere rapidamente verso la Terra. Le direttive erano chiarissime: doveva volare sempre categoricamente sopra i mille metri, e sempre con la protezione mimetica attivata; tuttavia, non gli importava perché anche da lassù lo spettacolo era bellissimo. Hugo non aveva infatti mai visto colori così intensi ed accesi come il verde brillante delle foreste e l’azzurro splendente e meraviglioso dei mari: vivendo in un epoca in cui il cielo era sempre tendente al grigio e le piante crescevano deboli e scolorite, il suo animo di sognatore ne rimase estremamente colpito e commosso.
Mentre stava per passare sopra il suo Messico, decise di avvicinarsi un po’ di più al suolo: voleva ammirare meglio lo spettacolo. Scese quindi dalla quota più alta a cui fino ad allora aveva volato fino al limite del chilometro; e, così facendo, si tuffò in una leggera nuvola che aveva sotto di se. Subito, si accorse di aver sbagliato la propria valutazione: la nube in cui era entrato era tutt’altro che lieve, e non si riusciva a veder nulla in nessuna direzione. Il giovane continuò a pilotare nella modalità di navigazione strumentale, cercando di uscire dalla foschia, ma passato pochissimo tempo qualcosa di inaspettato accadde: vi fu un improvviso bagliore di luce accecante, e subito tutte le spie della console di comando impazzirono per un istante, in avaria, prima di spegnersi totalmente. Hugo realizzò subito che la sua navetta doveva essere stata colpita da un fulmine, e che ora stava precipitando; tentò immediatamente di fare ripartire i sistemi di volo, ma senza alcun successo, la nave cadeva senza controllo ed aveva già oltrepassato il limite inferiore delle nuvole, col suolo che si avvicinava rapidissimo. Non c’era più niente da fare, quindi Hugo tirò la leva del sedile, e si espulse, mentre il suo velivolo continuò a precipitare, ed alcuni secondi dopo si schiantò al suolo, in una palla di fuoco ben visibile anche dall’altezza, dopotutto non così piccola, a cui il giovane si era ritrovato. Qualche minuto dopo, molto più dolcemente grazie al paracadute, anch’egli toccò terra; si ritrovò su un piccolo pianoro erboso, sul fianco di una montagna circondata da valli quasi da ogni lato ed, in lontananza, da altre montagne; ma ovunque, nient’altro che foreste e, qua e la, qualche macchia di brughiera. Lo spettacolo era meraviglioso, ma al giovane a quel punto non importava più: voleva solo esser salvato, e tornare il prima possibile sulla nave, e poi a casa, nel futuro. Iniziò così a comporre un messaggio a terra con le pietre che trovava lì intorno: voleva rendersi più visibile, per esser individuato e soccorso più facilmente dagli altri ricognitori, che di certo lo stavano già cercando intorno al punto in cui era scomparso dai radar.
Aveva quasi finito di comporre la prima lettera della sua scritta, quando un eco lontano gli giunse alle orecchie, come il suono di un motore che rimbalzava tra le montagne; qualche minuto dopo, d’improvviso, il rumore si fece più forte e definito, ed Hugo si accorse che sul versante appena sotto di lui serpeggiava una sottile linea bianca, a tratti coperta completamente dall’intrico di alberi, ma che doveva essere senza dubbio una carrareccia; provando a seguirla con gli occhi, vide che la strada si inerpicava lungo il lato della montagna formando dei tornanti, fino a passare probabilmente poco lontano dall’altopiano in cui si trovava. Sul movimento intravisto con la coda dell’occhio, che gliela aveva fatta notare, c’erano poi poche incertezze; e quando ne vide un altro, molto più vicino, non ebbe più dubbi sulla sua natura: doveva essere evidentemente un veicolo di qualche tipo, che si stava dirigendo quasi certamente proprio nella sua direzione. Hugo attese, pieno di inquietudine, di sapere se esso era solo di passaggio o se era lì proprio perché il suo schianto era stato in qualche modo intercettato; le sue peggiori paure vennero però confermate quando un fuoristrada militare, con a bordo due uomini nella vecchia divisa dell’esercito messicano, uscì all’improvviso dalla boscaglia ai limiti dell’altopiano, per poi fermarsi a circa dieci metri da dove si trovava. Mentre l’uomo nella parte posteriore rimase sull’auto, puntandogli contro la mitragliatrice di bordo, il guidatore scese, e col fucile spianato avanzò cautamente verso di lui. Solo allora Hugo si accorse che, a parte il taglio della barba, leggermente diverso, il volto di quell’uomo era identico al suo: come era possibile? Era se stesso? No, in quell’anno non era nemmeno nato, e poi se lo sarebbe ricordato. Era forse un’allucinazione, magari causata dalla caduta, in cui non si era accorto di aver battuto la testa? Eppure gli sembrava proprio che l’atterraggio fosse stato morbido. Il non riuscire a rispondersi lo sgomentò, e di conseguenza cercò di parlare; non riuscì tuttavia a pronunciare nemmeno una parola, perché l’altro, nonostante dimostrasse anch’egli inquietudine, con tono perentorio gli intimo il silenzio, il fucile puntato dritto al petto; quindi gli ordinò di togliersi il casco da pilota, che Hugo solo in quel momento realizzò di avere ancora in testa. Lo fece, e subito lesse negli occhi dell’uomo che aveva davanti un terrore cieco, mentre la sua mano cominciava a tremare pericolosamente in direzione del grilletto. Anche Hugo si spaventò moltissimo, e tentò nuovamente di parlare: ma, appena ebbe pronunciato la prima parola, il suo mondo divenne, per un attimo, un solo pervadente boato, seguito poi dal silenzio più totale. Si sentì improvvisamente debolissimo, e mentre si accasciava a terra, seppe di star morendo; poi, in un momento di lucidità arcana, capì cosa era realmente successo, un attimo prima che tutto sparisse nel buio.
Mentre le astronavi sparivano dalla vista, dirette prima verso l’orbita e poi verso il passato, Fernando Rodriguez poté finalmente lasciarsi andare al più cupo scoramento. Sapeva da anni ormai che quel giorno sarebbe arrivato, ed anche se gli era difficile accettarlo, non poteva evitarlo. Nessuna astronave sarebbe tornata indietro, lui ne era ben consapevole: la storia che si era raccontata al mondo fino a quel momento era stata una gigantesca menzogna. Nel 2174 erano davvero apparse delle strane astronavi, nei cieli di tutto il mondo, ed erano davvero rimaste in orbita per dieci giorni: ma non era successo nient’altro, si erano limitate ad orbitare senza far nulla, a parte alimentare le visioni apocalittiche di alcuni catastrofisti sul pianeta; esse, a loro volta, avevano cominciato ad instillare un gran numero di dubbi e di paure tra la popolazione, nonché tra i militari in allerta. Solo al decimo giorno qualcosa era avvenuto: nel Messico orientale era precipitato un oggetto non identificato, proprio nella zona di competenza del plotone di Fernando; così, insieme ad un commilitone, egli era stato inviato nella zona dello schianto, con l’ordine di controllare la situazione ed anche, se possibile, di trovare eventuali superstiti, di qualsiasi natura essi fossero. Si ricordava ancora estremamente bene di come avesse trovato quell’essere, di come l’avesse visto togliersi il casco,e di come il suo viso fosse così simile al suo; e poi di aver pensato che fosse un alieno mutaforma (proprio come dicevano alcuni di quei profeti di sventura) che lo aveva copiato, uccidendolo in preda al panico che lo aveva colto di conseguenza. Subito dopo, erano giunte altre piccole astronavi, apparse dal nulla come se fossero mimetizzate e scomparse nello stesso nulla nuovamente quando il suo compagno le aveva crivellate di colpi di mitragliatrice: allora era stato il terrore. La notizia degli alieni mutaforma con le navette invisibili e non intercettabili si era diffusa in un istante, e la paura aveva fatto il resto: così, mentre le astronavi in orbita erano state abbattute con le testate nucleari, senza che i loro abitanti quasi se ne accorgessero, vi era stata un’ecatombe a Terra, con alcuni paesi che ne avevano bombardato altri accusandoli (per paranoia o semplicemente strumentalizzando la faccenda) di essere ormai sotto il potere dai mutaforma. Era così nata una guerra (anche se più che altro era un disastroso caos, con tutti a combattere tutti) che in pochissimi mesi aveva sterminato gran parte dell’umanità e contaminato la maggioranza delle terre emerse con armi chimiche, batteriologiche e nucleari. I sopravvissuti erano infine riusciti a ristabilire la pace con grande fatica fatica, ma il mondo era ormai devastato e spopolato.
Meno di un anno dopo, nella foresta amazzonica, venne rinvenuto un gruppetto di ricognitori “invasori” superstiti, i quali si arresero senza combattere e riferirono alle autorità la loro realtà. Per quanto assurde fossero, le loro affermazioni erano supportate da evidenze inconfutabili; si capì, perciò, che ciò che dicevano non poteva che essere la verità: nessuna civiltà extraterrestre aveva mai visitato la Terra, tutti erano irrevocabilmente umani. Si formarono a quel punto due fazioni, tra i militari e gli uomini di governo, gli unici in quel momento a conoscere il segreto sui fatti: una era per nascondere tutto agli occhi del mondo, mentre l’altra era per divulgare la notizia; tra questi ultimi, vi era anche Fernando, nel frattempo promosso generale per i suoi meriti per ristabilire la pace. Eppure, dicevano i fisici, per quello che si conosceva sulla dimensione tempo, nulla sarebbe servito ad evitare il passato, ciò che era successo era successo, e non si poteva in alcun modo modificare: probabilmente rivelare la realtà avrebbe causato solo più conflitti e più dolori, e non sarebbe servito ad evitare comunque la tragedia. Per questo, la fazione della riservatezza prevalse, e venne inventato il falso ricordo della Guerra dei Dieci Giorni, accettato subito dalla labile memoria di una popolazione ancora confusa e stordita dalla grande ecatombe; Fernando, invece, in rotta coi suoi capi, si congedò dall’esercito, tornandosene mestamente a casa sua. Eppure, i ricordi di quanto aveva vissuto lo tormentavano di continuo; e, soprattutto, non riusciva ancora a capire come fosse possibile che il presunto alieno, il cui arrivo aveva causato il fraintendimento all’origine della guerra, avesse la sua stessa faccia. Poi però, il suo primogenito Hugo aveva cominciato a crescere, ed allora Fernando aveva capito tutto. Aveva tentato in tutti i modi di dissuaderlo dal partire, sperava ancora che gli scienziati potessero sbagliarsi di grosso: ma così non era, ed alla fine aveva dovuto accettare, con la morte nel cuore, che il figlio andasse incontro ad una fine certa, per giunta inflittagli proprio da lui, che così tanto lo amava.
L’ora stabilità trascorse, e non una della astronavi fece ritorno come era previsto. La folla di genitori in attesa dei propri figli comincio a sgomentarsi, non riuscendo a realizzare cosa era appena successo: e così alcuni piombavano in uno stato catatonico, altri piangevano, altri invece rincuoravano gli altri, dicendo si trattava, senza dubbi, solo di un banale ritardo. Solo Fernando Rodriguez, tra tutti, sapeva con certezza, e se ne stava in disparte, cercando di non dare a vedere quanto fosse provato da ciò che sapeva, sentendosi tanto sconfitto dalla vita da non riuscire nemmeno a piangere, o ad aprir bocca. Qualche minuto più tardi, radunò la famiglia, e senza dare la benché minima spiegazione, senza più guardarsi indietro, senza più alcuna speranza che all’orizzonte comparisse, lontana, la figura di una nave, si fece seguire dagli altri all’automobile, per ritornare mestamente a casa. Era la fine di ogni speranza, praticamente la fine del mondo per lui e per tantissime altre famiglie, che appresero poi, quella sera, la verità: e, nella storia futura, mai il ricordo di quanto successo quel giorno venne dimenticato, ad eterna memoria di quanto la paura e l’irrazionalità umane possano essere dannose.
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