martedì 4 novembre 2014

Vera minaccia

Se si eccettua "Un giorno di ordinaria gelateria" del mese scorso, è qualche tempo che non posto più racconti. Non che abbia battuto la fiacca, in questi ultimi tempi: oltre ai miei tanti altri progetti, anzi, ho infatti portato avanti pure un paio di racconti, considerevolmente più lunghi della media di quelli di quest'anno, che necessitano perciò molto più lavoro, rispetto a quelli "normali". Questa settimana sono riuscito infine a completarne uno dei due, probabilmente il più breve, e finalmente a postarlo: è un racconto di fantascienza piuttosto classico, narrante della solita invasione aliena, anche se con risvolti... che ovviamente non vi spoilero! Null'altro se non: buona lettura!

Vera minaccia

Magnus Kallberg restò impassibile mentre la piccola navetta aliena a forma di uovo atterrava davanti a lui. In quanto presidente della Lega Terrestre, era obbligato a mostrarsi forte davanti ai suoi colleghi ed al mondo: intimamente però provava un certo timore. Poteva quella proposta d’armistizio essere in realtà una trappola per eliminarlo?
“No, è impossibile. Per quanto possano essere barbari, non oseranno mettere a rischio i membri di una delegazione di pace.” pensò, cercando di scacciare i pensieri negativi. Intanto, il portello sul lato della nave si aprì con uno sbuffo e ne discese una rampa.
«Prego, salire a bordo.» disse una voce metallica proveniente dall’interno della navetta, appena la scala ebbe toccato il suolo.
«Ebbene, popolo della Terra, è giunto il momento. Siate con noi col vostro cuore, e che esso sia ricolmo dell’auspicio e della speranza che la nostra missione abbia successo. Arrivederci!» disse Kallberg solennemente alle telecamere dei tanti giornalisti presenti, continuando ad ostentare calma. Quindi, lentamente si voltò, e scambiato un cenno d’intesa con i suoi due compagni di viaggio, si avviò insieme a loro in direzione della navetta.

Appena entrato, l’uomo notò subito l’assenza della cabina di pilotaggio e di qualsiasi equipaggio: vi era solo uno stretto ambiente dalle pareti dello stesso colore bianco purissimo, quasi irreale dell’esterno, che conteneva tre ampi sedili affiancati ed un paio di larghi oblò ai lati.
«Prego, sedere e bloccare le protezioni.» fece la voce meccanica. Kallberg prese posto sul lato sinistro, mentre il vice presidente della Lega, Lewis Grenwood, si sedette dall’altro lato; Anders Edkvist, l’unica guardia del corpo che era stata loro consentito di portare, si infilò in mezzo. Appena tutti ebbero allacciato le cinture, il portellone si mosse, arrivando infine a richiudersi. Non passò nemmeno un minuto che si avvertì una piccola accelerazione: Kallberg fissò allora fuori dal finestrino, dove il panorama aveva cominciato lentamente a muoversi.
“Forse troppo lentamente“ pensò il presidente dopo una decina di minuti. Erano saliti forse di venti chilometri, mentre la nave madre aliena, era noto dai rilevamenti, era in orbita ad oltre trentamila chilometri dal suolo terrestre. Stava per dire qualcosa quando Edkvist, quasi leggendogli nel pensiero, lo anticipò.
 «Non sembra anche a voi che ci stia volendo una vita?» disse nel suo solito tono, rispettoso ma con una nota di sarcasmo irriverente. Kallberg fece per rispondergli quando, all’improvviso, un dolore violentissimo e penetrante scosse violentemente tutto il suo corpo.
“Sto morendo” pensò, ma improvviso come era apparso lo spasimo si dissolse, senza lasciar la minima traccia. Il presidente riaprì lentamente gli occhi che non ricordava di aver chiuso, e constatò di essere ancora all’interno della navetta. Qualcosa però era cambiato: il blu scuro del cielo e le sfumature marroni e verdi della Terra fuori dall’oblò erano stati sostituiti dal nero del cosmo.
«L’avete sentito anche voi?» fece la Greenwood, la voce rotta che dimostrava uno sgomento presente anche sul viso di Edkvist e probabilmente pure su quello di Kallberg.
«Si, anche io. Probabilmente è questo il famoso teletrasporto.» rispose il presidente, cercando di mostrarsi tranquillo, anche se non era semplice: per quanto breve, era stata comunque un’esperienza decisamente intensa.

Passò giusto un minuto, poi negli oblò il buio fu sostituito da un’intensa luce bianca; quindi, con un lieve strappo la nave si fermò.
«Prego, indossare l’attrezzatura vitale.» disse la solita voce, mentre dal soffitto davanti ai sedili discendevano dei piccoli contenitori bianchi attaccati a dei cavi. Aprendoli, i tre uomini vi trovarono qualcosa a metà tra un sacchetto di plastica ed una maschera anti-gas. Subito dopo, un’immagine apparve in fondo alla navetta: era uno schema che illustrava il procedimento per indossare quell’apparecchiatura.
«Tutto ciò è estremamente strano… strano ma rassicurante, non trovate anche voi?» fece Kallberg, spezzando il silenzio che era calato.
«Che intende, Magnus?» chiese Greenwood.
«Beh, guardi quelle istruzioni, Lewis: sono state realizzate appositamente per gli esseri umani, come anche queste “attrezzature”. E questi sedili, poi: sembrano essere stati costruiti in un blocco unico insieme alla nave, non sembrano mobili, il che mi fa pensare che anche la nave sia stata costruita appositamente per noi tre. Insomma, credo proprio che se avessero voluto eliminarci, avrebbero potuto farci salire su una nave qualunque e poi vaporizzarci all’interno di essa.
«Comunque sbrighiamoci, non credo sia bene far aspettare i nostri ospiti.» concluse il presidente, cominciando ad indossare la sua attrezzatura vitale, mentre la voce metallica ripeteva di nuovo il proprio messaggio.

Una volta che i tre uomini ebbero addosso quella che pareva un’ampia maschera da subacqueo, che avvolgeva strettamente l’intera testa, lo schema sulla parete di fondo sparì. Subito dopo, sentirono che l’aria intorno a loro veniva risucchiata, un attimo prima che il portellone sì aprisse con uno sbuffo, riequilibrando la pressione.
«Prego, scendere.» fu lo scontato messaggio che risuonò nella cabina, una volta che la rampa ebbe finito di abbassarsi. Kallberg si affacciò dall’apertura e studiò il posto: la navetta quasi non si distingueva sullo sfondo altrettanto bianco dell’hangar, ma si riusciva a comprendere comunque che fosse un ambiente piuttosto stretto. I tre uomini scesero con calma le scale, ed  appena furono arrivati in fondo, il portello ricominciò a chiudersi: al tempo stesso, la larga parete davanti a loro si schiuse, cominciando ad allargarsi pigramente e rivelando lo spazio completamente oscuro alle sue spalle, uno squarcio nero che si faceva man mano più largo, divorando il candore del muro. L’ansia crebbe in Kallberg, mentre i minuti trascorrevano senza che nulla accadesse; poi dal buio, improvvisamente, emersero due figure. Mentre si avvicinavano  il presidente li studiò:erano due umanoidi molto alti, slanciati, dalla pelle bianca candida quasi come la loro nave, ed indossavano lunghe tuniche nere e grigie, che ne avvolgevano tutto il corpo, dalle spalle fino a terra. Erano i primi alieni che un essere umano avesse mai visto, o almeno i primi che rivelavano il loro vero aspetto, senza la tuta protettiva che ricopriva integralmente i soldati protagonisti dei raid sul suolo terrestre.
“Non me li sarei mai immaginati… così!” pensò Kallberg guardando quei due in faccia. Si era aspettato dei mostri o almeno esseri dagli sguardi feroci, ma quegli alieni avevano occhi placidi, con la pupilla orizzontale che li faceva assomigliare vagamente a capre, sensazione acuita anche dalle piccole antenne che partivano dalla sommità della testa ed andavano verso l’indietro e dalla folta barba sotto i loro menti. I due continuarono ad avanzare, fermandosi ad un paio di metri davanti agli uomini fissandoli con una strana espressione, apparentemente preoccupata seppur al tempo stesso tranquilla. Fecero un rapido inchino, subito imitati dai loro ospiti, e poi il più alto cominciò a parlare lentamente, con una voce acuta e melodiosa.
«Io sono Veshek Nalvar, segretario della nazione itinerante Hirutìn, e questi è il mio sottosegretario, Trevak Juitar. A nome di tutto il popolo Hirutìn, gentili signori, vi do il benvenuto a bordo.» disse la solita voce robotica parlando da altoparlanti piazzati all’altezza delle orecchie nell’attrezzatura vitale, a cui Kallberg non aveva fatto caso.
“Ingegnoso, un traduttore simultaneo” comprese il presidente.
«La ringrazio, signor Nalvar. Sono Magnus Kallberg, presidente della Lega Terrestre.» rispose cauto, mentre dall’attrezzatura provenivano suoni alieni, a conferma della sua teoria. I suoi accompagnatori si presentarono a loro volta, poi Nalvar riprese la parola.
«Prego, gentili signori, seguitemi. Abbiamo molte cose da dirci.» li invitò.

Il gruppetto venne condotto in breve ad una piccola sala molto intima, senza finestre e del solito colore bianco, nella quale l’unico mobilio erano cinque sedie attorno ad un largo tavolo. Quando tutti furono seduti, Nalvar cominciò a parlare:
«Dunque, gentili signori. Come ho già detto, abbiamo molto di cui parlare. Per cominciare, credo sia opportuno raccontarvi la storia del nostro popolo. Sempre se per voi non è un problema, ovviamente.»
«Se lo ritiene necessario, signor Nalvar, faccia pure» rispose Kallberg con fredda gentilezza.
«Lo è, gentile signore, ed a tempo debito ne capirà anche il perché.
«Noi Hirutin, dovete sapere, siamo un popolo molto antico. Ci siamo evoluti dalle forme di vita che abitavano il nostro pianeta, Tìn, in un periodo corrispondente, nella vostra unità di misura del tempo, a circa tre milioni di anni fa. Partendo da una situazione primitiva, ci siamo man mano evoluti tecnologicamente, fino ad arrivare a livelli molto superiori a quelli a cui voi attualmente vi trovate. Ciò nonostante, il nostro pianeta continuava ad essere diviso in tante nazioni, piccole e grandi, che di continuo guerreggiavano tra loro. L’assenza di conflitti era una condizione a noi ignorata, non abbiamo mai conosciuto nemmeno la situazione semi-pacifica da voi sperimentata in quelli che chiamate “Stati Occidentali”.
«Un tragico giorno di circa ventimila anni fa, nei nostri cieli apparve uno sciame di navette aliene, il primo contatto che Tìn avesse mai avuto con una forma di vita non proveniente da esso. I nostri avi, nei vari stati, cercarono subito di comunicare, di dare il benvenuto ai visitatori, ma i tentativi di comunicare andarono tutti a vuoto. Quel che è peggio, gli alieni immediatamente ci aggredirono in armi, cominciando a conquistare il pianeta e ad uccidere i suoi abitanti.»
«Ed è per questo che da allora voi fate lo stesso agli altri? E’ per questo che avete cercato di sterminare il nostro popolo?» lo interruppe Greenwood con una voce furibonda che Kallberg non aveva mai sentito prima. Il presidente lo guardò per un secondo, allarmato ed irritato: aveva saputo che il suo vice aveva perso la moglie ed il figlio in uno dei blitz fulminanti di quegli alieni e ne aveva appreso il dolore, ma non credeva che potesse avere quella reazione. Al contrario, Greenwood era noto per la sua leggendaria flemma: per questo Kallberg non aveva avuto dubbi su di lui come accompagnatore.
«Basta così, Lewis» ordinò, perentorio, per poi rivolgersi agli ospiti.
 «Perdonatemi, sono mortificato. Prego, signor Nalvar, prosegua, e scusi ancora per l’interruzione.»
«Si figuri, gentile signore, non ha importanza. Dunque, come stavo dicendo, subimmo questa invasione, ma inizialmente ognuno combatté per se stesso. Non tutte le nazioni erano state attaccate, ma invece di unirci, cosa che ci avrebbe consentito di sconfiggere il nemico anche piuttosto facilmente, continuammo a restare divisi. Avvennero invece fatti atroci: alcuni dei nostri approfittarono della difficoltà militare in cui gli stati confinanti sprofondavano dopo l’aggressione aliena e li assalivano a loro volta. Era ovvio che anch’essi, prima o poi, sarebbero stati presi di mira dagli invasori: perché avrebbero dovuto far distinzioni? A loro tuttavia non importava: riuscivano a guardare solo al presente, accecati dai paraocchi dell’odio per il diverso e del nazionalismo.
«Un’alleanza venne infine formata dopo mezzo anno, ma era già troppo tardi. Raccogliendo le nostre esperienze, riuscimmo a scoprire tutti i punti deboli del nemico, e cominciammo una lotta senza quartiere: la nostra rabbia era grande, visto che ormai ognuno di noi aveva avuto le sue gravi perdite. Ci volle un altro mezzo anno, ma riuscimmo infine a respingere i nemici; nella ritirata, pero, essi distrussero tutto ciò che ancora era in piedi, ed inquinarono più che potevano l’atmosfera, sfruttando e depredando ogni singola risorsa dell’immenso territorio che controllavano. I padri dei nostri padri ce ne hanno data una descrizione tragica e molto vivida: le foreste morivano a vista d’occhio per le radiazioni e per l’aria tossica e lo stesso capitava agli animali ed alle persone, che agonizzavano dolorosamente. La morte era ovunque. La distruzione avanzava inesorabile, ed in poco tempo ogni forma di vita sul nostro pianeta sarebbe stato del tutto condannata. Fin qui tutto chiaro, gentili signori? Avete domande?»
«Scusi, signor Nalvar, io ne avrei una» disse Kallberg.
«Prego, mi dica.»
«Ecco, lei ha appena affermato che i vostri – se così posso chiamarli – nonni vi hanno parlato dell’attacco al vostro pianeta, ma ricordo che poco fa ha detto che gli alieni sono giunti ventimila anni fa. Ho per caso frainteso io, oppure la durata media di vita della vostra razza è molto più lunga della nostra?»
«Mi scusi, non lo avevo specificato. In realtà noi non siamo poi così diversi da voi: stando alle nostre ricerche la vostra vita media si aggira intorno a cento dei vostri anni, mentre la nostra è sui centoventi. La parte di gran lunga maggioritaria dei ventimila anni successivi all’invasione di Tìn li abbiamo trascorsi in viaggio. Il nostro sistema di spostamento interstellare è quello che voi chiamate “teletrasporto”, solo applicato su distanze molto più lunghe. Come anche voi avete scoperto, è fisicamente impossibile, nel nostro universo, che la velocità della luce venga superata: anche il nostro teletrasporto deve sottostare a questa legge. Perciò anche se noi percepiamo un trasporto istantaneo, magari il viaggio che abbiamo compiuto è durato decine o addirittura centinaia di anni. Probabilmente, quindi, la nostra età reale si aggira su molti millenni, anche se la nostra vita effettiva non è che di alcune decine di anni, come la vostra. Ho soddisfatto la sua curiosità, gentile signore?»
«Si, signor Nalvar, scusi l’interruzione»
«Si figuri. In ogni caso, come ho detto poc’anzi, il nostro pianeta stava diventando rapidamente invivibile, e nonostante ciò fosse estremamente doloroso, non potevamo rimanere. I nostri scienziati riuscirono a far funzionare alcune delle navi aliene che avevamo catturato, e potemmo così abbandonare per sempre la superficie di Tìn mentre la sua biosfera esalava l’ultimo respiro.
«Per qualche anno, il nostro intero popolo rimase in orbita intorno al nostro pianeta natale. Tuttavia, scendere sulla superficie per procurarci le poche risorse di cui avevamo bisogno aveva forti effetti psicologici su chi lo faceva: le misure di sicurezza fecero si che nessuno morisse in missione, ma tra quelli che vi partecipavano vi era un altissimo tasso di suicidi. Infine, si decise quindi di abbandonare per sempre Tìn ed il suo sistema solare, per non tornare mai più, utilizzando la tecnologia del teletrasporto acquisita dagli alieni. Ma cosa avrebbe potuto fare il nostro ormai piccolo popolo in seguito, senza più possedere un pianeta? Alcuni di noi proposero di trovare un mondo disabitato da colonizzare, cosa che successivamente misero in atto; ma troppo forti, in troppi di noi, erano ancora le ferite della guerra. Una grande parte degli Hirutìn decise perciò di emendare le proprie colpe intraprendendo una missione senza fine, cercando pianeti abitati da altre civiltà e mettere queste in guardia contro ciò che era successo a noi. Il primo tentativo tuttavia fallì miseramente: il popolo Mèlmram, abitante il primo mondo che visitammo, non volle ascoltare le trasmissioni radio che gli inviammo, e ci attaccò quando divenimmo insistenti; preferimmo a quel punto fuggire a gambe levate che rispondere. Non sappiamo cosa sia successo nel frattempo, ma è molto probabile che a loro sia andata peggio che a noi. Qualcuno di voi, gentili signori, si intende di astronomia?»
«Io! Sono un astrofilo amatoriale.» si propose Edkvist, sorprendendo Kallberg, che non conosceva questa passione della sua guarda del corpo.
«Riconosce questo corpo celeste?» intervenne Juitar, mostrando all’uomo un piccolo apparecchio video piatto che conteneva un’immagine variopinta.
«Certo! E’ la Nebulosa del Granchio, uno degli oggetti più famosi del nostro cielo.» rispose l’uomo, per poi spiegare, girato verso i suoi compagni:
«E’ il resto di una supernova, in poche parole di una stella a fine vita che è esplosa, ed ha lasciato questa nube di gas incandescente.»
«E’ quasi esatto, gentile signore, ma le chiedo scusa: sono costretto a correggere una delle sue affermazioni, anche se il suo errore è di sicuro in buonafede, dettato probabilmente dal fatto che la vostra cultura non fosse sufficientemente sviluppata all’epoca dell’esplosione.» fece Juitar.
«Non si scusi, lei ha ragione. La stella è esplosa intorno all’anno 1050, quindi circa un millennio fa, in un epoca in cui lo sviluppo tecnologico della Terra era praticamente nullo. O almeno, la sua luce è arrivata in quell’occasione, mentre la sua esplosione risale, mi pare di ricordare, a circa ottomila anni fa.»
«Ricorda bene, gentile signore. In ogni caso, nell’occasione di cui stavo parlando, i nostri astronomi hanno studiato quella stella, il sole dei Mèlmram: secondo loro, la sua vita non era affatto alla fine, ma circa a metà vita, e non era nemmeno abbastanza massiva da poter esplodere come supernova. Non sappiamo cosa sia successo in seguito alla nostra partenza dal sistema, ma è altamente probabile che i Mèlmram abbiano continuato a farsi la guerra tra loro per molti altri millenni, finché non sia stata messa a punto una qualche arma particolarmente potente e sofisticata che si è ritorta anche contro i propri creatori, facendo esplodere la stella.»
«In ogni caso», intervenne Nalvar, «dopo quell’esperienza, fu deciso di modificare decisamente il nostro approccio per svolgere quello che avevamo deciso essere il nostro compito nell’universo. Si discusse a lungo su cosa si potesse fare per unire il popolo diviso di un pianeta, e la soluzione fu trovata nella nostra storia. Gli attaccanti di Tìn ci avevano uniti ed in un certo senso salvati: probabilmente senza di loro ci saremmo comunque autodistrutti tra noi, per giunta estinguendoci totalmente, senza il loro teletrasporto. Dovevamo fare  perciò imitarli, in parte: aggredendo muti tutti gli stati del mondo di turno con brevi raid non totalmente distruttivi, li avremmo costretti ad unirsi per combatterci. E’ questo, lo avrete capito, il motivo per cui abbiamo attaccato la Terra, e sembra proprio che il nostro intento abbia avuto pieno successo.»
«Quindi, voi… voi avete ucciso milioni di persone, per questo? Avete sterminato a sangue freddo milioni di innocenti solo per unificare tutti gli stati sotto un’unica bandiera?» chiese Greenwood, lentamente e quasi con sofferenza. Nella sua voce non c’era più rabbia, solo uno scoramento estremo, sentimento che anche Kallberg provava.
«Si, è così» disse lentamente Nalvar, la strana espressione sul volto, aggiungendo quindi «O almeno è ciò che vi dovevamo far credere.»
Juitar intanto parlò bassa voce all’interno dell’apparecchio, senza farsi captare dal traduttore simultaneo: subito dopo la porta della stanza si aprì, e due figure vennero avanti. Kallberg ne fu sorpreso: non erano extra-terresti, bensì esseri umani come lui, una donna ed un bambino che per giunta gli pareva di aver già visto da qualche parte.
 «Mio Dio!» urlò Greenwood alzandosi in piedi, e poi continuando ad urlare si precipitò verso i nuovi arrivati, piangendo ed abbracciandoli.
“Ecco, è la famiglia di Lewis!” realizzò il presidente, anche se il suo sconcerto aumentava: era un qualche genere di inganno? O altrimenti, come facevano ad essere ancora vivi?

Vi fu qualche minuto di pausa, poi Greenwood si ricompose e sedette di nuovo al tavolo.
«Credo che debba una spiegazione a tutti noi, signor Nalvar.» disse Kallberg, deciso.
«Ovviamente. Vi è un motivo molto semplice per cui i suoi parenti, gentile signore, sono qui presenti, anche se li credeva uccisi. Come le nostre navette militari anche le nostre armi funzionano col principio del teletrasporto, oltre che con qualche semplice effetto speciale. Vi abbiamo fatto credere che i nostri fucili disintegrassero completamente i vostri corpi, mentre invece si limitavano a trasportarli a bordo di nostre navi approntate proprio per lo scopo. Le milioni di persone che pensavate essere morte sono quindi al sicuro, ibernate ma in perfetta salute, e quando lo deciderete le potremo riportare a casa senza alcun problema»
 «E’… tutto vero?» chiese Greenwood, commosso.
«Si, gentile signore.» rispose Nalvar, la solita espressione indefinibile sul volto. Seguì qualche momento di silenzio, poi cautamente Kallberg riprese la parola.
«Perché… perché tutto questo sforzo solo per l’umanità?» domandò piano, quasi con timidezza.
«Glielo ho già spiegato, caro signore. Lo abbiamo fatto per il vostro popolo, per la Terra.»
«No, intendevo un’altra cosa: cosa ci guadagnate voi, nel fare tutto ciò?»
«Nulla, gentile signore, eccetto la soddisfazione altruistica di avere favorito la guarigione di un pianeta. Credendo noi il nemico, voi avete allontanato in realtà quella che per voi è la vera minaccia, ossia voi stessi. Ora siete uniti, amici, lavorate insieme, cooperate, non lottate più tra di voi, per la prima volta nella vostra storia: è questo il nostro guadagno, la gioiosa consapevolezza di aver salvato un’altra civiltà da se stessa, e di averla indirizzata sulla giusta strada per la pace. Questo, ed anche il piacere egoistico della buona riuscita di una nuova missione.»
Ancora una volta cadde il silenzio per qualche momento, prima che Nalvar tornasse a parlare, il volto sempre corrucciato nella stessa impenetrabile espressione:
«Comunque, gentili signori, direi di concludere qui questa nostra prima riunione. Abbiamo ancora molte cose da dirci, ma siccome dovremo restare ancora per circa un anno nel vostro sistema solare, per ricaricare gli accumulatori d’energia delle nostre navi, ne abbiamo tutto il tempo, ammesso che voi ne abbiate voglia. Per oggi, perciò, penso che possa bastare così. Vi ringrazio, gentili signori, per essere venuti fin qui.»
«Grazie a lei, signor Nalvar, per tutto, soprattutto per ciò che avete fatto per la nostra razza, anche se non riesco ancora a capacitarmi della portata delle vostre azioni né tantomeno a capirne le motivazioni.» rispose Kallberg, per poi affrettarsi a precisare:
«Non è però colpa della sua spiegazione, che è stata chiara, semplicemente siamo noi umani che dobbiamo essere diversi, forse inferiori a voi nell’intelletto per comprendere.»
«Mi spiace solo che spesso il nostro popolo ha spesso ridicolizzato le idee new age secondo cui le divinità della mitologia non erano altro che visitatori celesti arrivati sulla Terra all’alba della civiltà. Voi, signori, siete proprio come divinità!» aggiunse raggiante Greenwood.
«Divinità, gentile signore? Mi scusi se la contraddico, ma io non credo affatto che noi lo siamo. Semplicemente, attraversando un’esperienza estremamente dolorosa e traumatica come quella del pianeta Tìn, siamo cresciuti come popolo, ed ora siamo moralmente più maturi di voi. Tutto qui.» concluse l’alieno, mostrandosi nuovamente corrucciato. E fissandolo, Kallberg comprese finalmente cosa quell’espressione significava: era in realtà l’equivalente alieno di un sorriso sincero su un volto gioviale.

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