Cuore di vuoto infinito
D. era seduto per terra, con la schiena contro il muro, mentre calde lacrime gli baciavano le guance. Nella fabbrica abbandonata da anni in cui si trovava, vi erano interi macchinari a pezzi, mostri enormi una volta possenti ma ora ridotti in terra, pezzi di intonaco staccatisi dalle pareti e dal soffitto, e, sparpagliata ovunque, una grande quantità di rifiuti di ogni tipo. Il buio era illuminato dalla pallida luce rossa dei lampioni della città poco lontana, che la nebbia diffondeva, e passava attraverso le finestre e l’apertura della pesante porta di metallo, lasciata spalancata dal giovane stesso nell’entrare; nel complesso ne risultava una visione brulla e decadente, il che era in una deleteria e perfetta armonia con ciò che il ragazzo provava in quei momenti. Si sentiva ormai sconfitto, un “vinto” come quelli così ben descritti da Verga, avrebbe detto in momenti felici vantandosi come spesso faceva della propria cultura letteraria: ma stavolta non era affatto dell’umore per pensare ad una cosa simile, il suo pensiero era a quel punto rivolto esclusivamente verso ciò che stava per accadere di lì a poco. Mentre rigirava tra le dita il lungo coltellaccio da cucina, unico bagaglio che si era e portato dietro da casa oltre alla solitudine, unica amica rimastagli, davanti agli occhi gli scorreva tutta la sua vita. Così breve era stata, eppur così immensamente lunga era sembrata, con tutto ciò che aveva passato, con tutto il dolore che aveva provato, con tutto il male che aveva subìto dal mondo.
La sua infanzia non era stata poi così pessima, anzi: aveva avuto una famiglia affettuosa accanto, ed era cresciuto come tanti altri, anche se rispetto ai suoi coetanei era sin da subito apparso più intelligente. Eppure, maturando, D. cominciò a sentirsi diverso dai suoi coetanei, molto diverso. Pian piano, sviluppò una concezione del mondo radicalmente diversa e decisamente più profonda del pensiero comune, una visione romantica ed idealista ai termini estremi. Se anche ci volle molto tempo per rendere le sue idee coerenti e completamente evolute, tale modo di pensare era presente sin da quando aveva quindici anni; e fu questo l’inizio della sua condanna. Se infatti aveva capito prestissimo quanto l’amore fosse importante, non riusciva a capacitarsi di come praticamente tutti quelli che conosceva, anche i più “sfigati”, avessero trovato tutti, se anche in modi e tempi diversi, una partner mentre lui, complice probabilmente la sua estrema timidezza, non riusciva ad avere neppur la più insignificante esperienza in tal senso. Dopo qualche anno di attesa passiva, provò a farsi avanti nella ricerca di una persona speciale, per quanto il suo carattere così introverso glielo permettesse. Era una ricerca apparentemente facile, viste le sue qualità ed il fatto che per lui contassero solo amore, sintonia e comprensione, ed una persona disposta ad amarlo con queste sole caratteristiche sarebbe potuta divenir per lui la sua vera anima gemella: nonostante ciò, riuscì a conseguire solo pesanti delusioni, alcune delle quali dolorosissime, che lo fecero soffrire immensamente, per quell’infelice principio secondo cui chi vive al massimo le emozioni positive, subisce immensamente amplificate anche quelle negative. Lui tuttavia non vacillò, era un uomo che non abbandonava i propri sogni facilmente e quelli d’amore, i più essenziali per lui, men che meno; al contrario essi si facevano sempre più profondi e sofisticati. Seppur fosse qualcosa per cui, dall’esterno, D. poteva essere visto come una persona estremamente ammirevole (per quanto i suoi coetanei ben poco lo stimassero, considerandolo nel migliore dei casi un ingenuo e nel peggiore un totale imbecille), e del resto anch’egli sapesse di star seguendo la giusta via per conseguir potenzialmente una vita piena, l’unica degna di esser vissuta, nel suo cuore vi era una sofferenza continua, quasi una tortura. Ogni cosa relazionata all’amore lo affliggeva, anche semplicemente il vedere una coppia felice scambiarsi addirittura solo un’effusione lo faceva ardere di struggimento, consumato dal nero fuoco del desiderio d’esser amato insoddisfatto: lo voleva anche lui! Voleva anche lui che una persona speciale lo guardasse con quegli occhi colmi d’amore, voleva anche lui baci e carezze, abbracci e tenerezza, comprensione e dolci parole; ma continuava a non potere, per quanto provasse. A volte persino i suoi amici gli causavano attacchi d’ansia: i loro discorsi sul sesso occasionale e sulla donna vista quasi come un oggetto crucciavano il giovane, che si chiedeva con scoramento come era possibile che loro, a cui alcunché dell’amore importava, e si fidanzavano solo per lussuria, o per superficialità, o addirittura solo per capriccio modaiolo, avessero avuto comunque molte ragazze, mentre i suoi tentativi erano sempre andati tutti completamente ed inesorabilmente a vuoto, proprio lui che così tanto poteva amare, che poteva rendere una qualsiasi persona l’essere più importante e felice del mondo trattandola come la più amata delle principesse, che così tanto considerava l’amore come la cosa più fondamentale in assoluto nell’universo intero, la forza che trascendeva totalmente ogni cosa dalla potenza immane ed inimmaginabile. Comunque sia, i suddetti amici erano lo stesso bellissime persone, a cui voleva un mondo di bene: lo aiutavano molto con quell’intenso affetto d’amicizia che era in fin dei conti una forma diversa di amore, e D. con loro riusciva comunque a distrarsi e ad esser felice: ma nel profondo l’afflizione covava sempre, come un tizzone ardente sotto la cenere, e del resto nessun amico, per quanto stretto, sarebbe riuscito a riempire quel vuoto nella sua anima, a colmare quella fortissima mancanza che lo faceva sentire così incompleto e così solo, ovunque e con chiunque si trovasse. Così, spesso dopo aver spento le luci, coricato sul suo letto, la mente del giovane era attraversata da riflessioni di oscura tristezza. Cosa aveva poi mai di sbagliato, lui, per non poter avere l’amore che tanto bramava, per cui tanto si struggeva? Che cosa gli mancava per poter viver l’idillio romantico che tanto sognava? La ragione non trovava nulla, anzi, sapeva di avere così tanto da poter dire e da poter dare, e ciò lo faceva sentire completamente inadeguato. Era in quei momenti, prima di dormire, che lo scoramento più cupo lo prendeva, e si sentiva più sconsolato che mai.
Man mano che gli anni passavano, i suoi tentativi di evadere da quell’orrenda realtà si intensificarono, ma il risultato fu sempre lo stesso: per quanto ci provasse, nessuna appartenente al gentil sesso si avvicinò mai a lui in alcun modo, e ad ogni nuovo rifiuto o allontanamento, nel suo cuore i mostri che vi albergavano, generati dalla disperazione e dal dolore, si fortificavano sempre più. I suoi sogni seguitavano a restare saldi, ma la loro frustrazione perpetua, il persistente protrarre del periodo solitario, lo torturavano intimamente, come un tarlo che scavasse nel suo animo, divorandola dall’interno. Così il vuoto dentro di lui diventava sempre più assoluto, sempre più simile a quello che si trovava nel cosmo più profondo, ove anche una singola particella è rarissima; e nel cuore delle sue notti, sempre più insonni per l’angoscia, egli piangeva e malediceva se stesso. Perché proprio a lui? Cosa aveva fatto per meritarsi tutto quello? Per quale motivo esisteva? Quale senso aveva quella lunga collezione di dolore senza fine? Avrebbe voluto non credere più nell’amore, avrebbe voluto diventare il peggiore degli esseri umani e abbandonarsi al più turpe nichilismo, non dando importanza più a nulla al mondo, smettendo di pensare; ma non ci sarebbe mai riuscito, e pur sapendo di star percorrendo ancor la via giusta, nell’intimo odiava se stesso con tutto il cuore per questo. Ad un certo punto, anche le cose al di fuori della sfera amorosa cominciarono ad andargli alquanto male, e così D. venne inghiottito nel tunnel della più malevola e strisciante depressione. Le sue speranze erano come sempre vive, ma ciò non gli dava molta forza; piuttosto, era immensamente stanco di dover vivere in eterna attesa, aspettando qualcosa che sembrava ancora eternamente lontano nel tempo ed era diventato un’assenza smisuratamente opprimente ed angosciante, che non gli dava pace. Il tempo passava, e D. sentiva il suo cuore invecchiare, arrugginirsi al passare del tempo e riempirsi di ragnatele, il suo mondo personale sembrava solo corrompersi, dalla bellezza che c’era all’inizio dei suoi giorni per raggiungere nel processo di degrado infine la totale decrepitudine. Raggiunse e passò la soglia dei ventisette anni, ed era in vista dei ventotto, quando, oramai disperatissimo, si decise a far qualcosa per scrollarsi di dosso quella croce che ormai era diventata infinitamente troppo pesante da portare. Non poteva costringere una persona ad amarlo, anche perché del resto non sarebbe stato un amore vero ed ideale come quello che lui tanto anelava: poteva fare qualcosa solo su se stesso. Perciò, dopo averci pensato a lungo, si decise a compiere l’ultimo passo, scegliendo infine di assecondare gli istinti suicidi che non da poco, anzi da moltissimi anni, erano ben presenti tra i suoi pensieri. Le sue ossessioni lo portarono a scegliere una data ben precisa per farla finita: il giorno precedente il suo ventottesimo compleanno. Se nulla fosse cambiato, non voleva arrivare a quel traguardo da solo, senza aver ancora conosciuto mai l’amore, e sarebbe morto a ventisette anni, come tanti dei suoi miti, quali Jimi Hendrix, Jim Morrison e Janis Joplin. Nonostante ciò, non si era ancor arreso: nei mesi successivi, si impegnò moltissimo per raggiungere il proprio obiettivo, ovviamente evitando qualsiasi tipo di forzatura, che in ogni caso avrebbero contraddetto il suo idealismo; ma l’ultima delle persone in cui aveva riposto le sue speranze, con cui era nato un rapporto di gran confidenza, lo allontanò subito dopo aver saputo del suo voto. Dopo che il mondo gli era crollato addosso per l’ennesima volta, D. rimase da solo davanti al suo destino, con il vuoto dentro di se divenuto una gigantesca voragine nera, un turpe abisso senza fondo, e con l’unico desiderio di porre fine a quella solitudine estrema ed eterna, che da troppo tempo andava avanti, avendolo ormai consumato completamente dentro. Così, la sera prestabilita, senza avvertir nessuno, era uscito di casa, lasciandovi solo una lettera in cui spiegava tutto ciò che aveva vissuto e i motivi per cui non poteva continuar così; e giunto in quel grande capannone, che sapeva da tempo disabitato e senza alcuno che potesse andarvi a curiosare nemmeno per sbaglio, aspettava ora di riuscire a trovare il momento ed il coraggio per fare ciò che voleva fare.
Erano circa le undici e mezza, e D. era stato lì con il caos totale nel cervello per quasi un’ora, in un’atmosfera oscura di triste tranquillità, di silenzioso scoramento, di amaro fallimento. Aveva riflettuto molto a lungo sulla propria condizione e sull’esistenza umana: ciò che da sempre aveva desiderato più di ogni altra cosa in assoluto nel mondo, mai si era realizzato, era come se il fato fosse stato un malvagio ma ironicissimo essere sadisticamente consapevole delle sofferenze che gli aveva causate, ed avesse voluto infierire sempre di più, sempre peggio, sempre più duramente sulla povera pelle del giovane, infine totalmente logorato ed esausto, senza più una singola energia per poter andare avanti. Tutte le sue conoscenze, tutta la sua immensa cultura, tutta la sua intelligenza, tutte le innumerevoli qualità, da tanti tanto lodate ma in fin dei conti completamente inutili, non gli erano servite ad assolutamente nulla: ormai l’aveva capito, lui era sbagliato. Non era affatto adeguato ad essere amato, non ne era nemmeno degno, non era adatto neppure a quel mondo, era solamente un essere in tutto e per tutto erroneo, spazzatura umana che nulla valeva ed altrettanto meritava. Le uniche forze che gli rimanevano erano quelle necessarie per l’ultimo atto: così, finalmente decisosi, vinte tutte le resistente, alzò il coltello e se lo puntò contro la cassa toracica. Era giunto il momento: se mai una donna aveva colmato quel vuoto cosmico or perfetto presente nel suo cuor così straziato, ora forse il freddo e lucente acciaio ci sarebbe riuscito. Prese un bel respiro, e poi, piangendo come mai, premette con tutta la forza che aveva nelle braccia sull’impugnatura della lama, affondandola nel petto. Il dolore fisico fu lancinante, ma durò giusto un’infinitesima frazione di secondo, prima che il mondo sprofondasse nel buio.
Vista la sua cognizione scientifico-razionalista della realtà, era conscio di come l’aldilà non esistesse e di come la morte fosse la fine definitiva della coscienza, un sonno sconfinato e continuo… ed allora cos’era successo? Non sapeva per quanto fosse rimasto in stato di incoscienza, se un secondo oppure un lustro, ma ora si sentiva stranamente sveglio, per quanto non lucidissimo. Lentamente, aprì gli occhi, e si accorse di essere in una stanza d’ospedale: com’era possibile? Qualche minuto dopo, arrivò un infermiere, a cui chiese lumi: gli venne spiegato allora che il suo tentativo di suicidio era fallito, il coltello aveva solo sfiorato il cuore, per sua fortuna (o per malasorte, pensava il giovane); e così una persona, trovatasi casualmente nella fabbrica abbandonata, lo aveva soccorso in tempo, prima che si dissanguasse. Costui venne poi fatto entrare, e D. sgranò gli occhi: era una giovane ragazza di bell’aspetto, e per giunta molto particolare, che qualcuno poteva addirittura trovare brutta, ma che a lui, non sapeva perché, anche solo a prima vista piaceva molto. Aveva lunghi e lisci capelli neri come la notte, occhi egualmente neri e belli, due abissi profondissimi, un viso strano ma bello, che si faceva ammirare soprattutto per com’era liscio ed angelico ma anche espressivo, con piccole imperfezioni che però non rovinavano ma rendevano il viso addirittura molto più affascinante, e dei lineamenti elegantissimi, quasi divini. Tuttavia, non era tanto l’apparenza, ad incantarlo, erano più i gesti, i movimenti, gli ammiccamenti e soprattutto il suo bellissimo e sincero sorriso: quella donna non gli pareva solo bella da non poter volgere lo sguardo (per quanto razionalmente capiva la soggettività, lei non era poi così mozzafiato, almeno per i comuni canoni di bellezza), ma sembrava anche molto gentile ed intelligente, realtà confermata dal modo in cui parlava, e da ciò che diceva. In ogni caso, la prima domanda che ella gli pose fu sui motivi per cui aveva compiuto quel gesto; il suo stupore fu grande quando seppe, e subito gli spiegò quanto essi fossero veramente simili a quelli che avevano spinto lei a rifugiarsi nel capannone, per star da sola a riflettere mestamente sulla sua cronica mancanza d’amore e su quello che lei definiva il proprio “buco nel cuore”, così somigliante al vuoto nell’anima del ragazzo. Su tante altre cose i due giovani erano in sintonia, di conseguenza la conversazione fu gradevolissima per entrambi, ed al termine di un lungo incontro ella gli promise che sarebbe tornata a trovarlo. Anche se il giovane era piuttosto scettico e non se lo aspettava, effettivamente la ragazza tornò spesso, e tra di essi nacquero discorsi affettati lunghi ore ed ore, in cui i due si legarono moltissimo. Quando D. uscì dall’ospedale, lei c’era ancora, e lui dal canto suo iniziò a invitarla ad uscire insieme, in amicizia. Passarono molto tempo insieme, divenendo inseparabili ed intimissimi, e nel giovane qualcosa, nato già dal primo incontro, continuava a crescere. Non era una novità, gli era già successo centinaia di volte di invaghirsi di qualcuna, ma sentiva stavolta che in qualche modo lei era diversa: il suo sorriso era come il Sole, e lei veramente affettuosa con il giovane, lo apprezzava tantissimo e lo metteva completamente a suo agio, sembrava quasi provare un sentimento che nessuna donna gli aveva mai dimostrato prima. Poi, una sera, l’iniziativa partì da lei, che era sempre stata estroversa e coraggiosa, al contrario di lui: e sotto una splendida Luna piena d’argento, con le stelle che osservavano dal cielo, calme e sorridenti, gli dichiarò quanto amore le era nato dentro nei confronti di un’anima così meravigliosa come la sua, il quale d’altronde, silenziosamente, certo era giunto a ricambiarla appieno. Fu il momento in assoluto più felice della vita di D., così bello da sembrare irreale, pura immaginazione divenuta realtà per un’incantevole magia, il suo più grande sogno che si realizzava. In quel momento si chiese se tutto stava davvero accadendo, oppure se stava solo immaginando il tutto.
Purtroppo era la seconda. Se ne accorse subito, l’istante successivo, quando il mondo di quella fantasia scomparve improvvisamente, aprendo i suoi veri occhi, che fino ad allora erano rimasti serrati. Nonostante ciò che aveva visto in precedenza apparisse ancora quasi reale, realizzò subito come fosse ancora nella fabbrica abbandonata, con il coltello piantato in profondità nel torace; non era accanto al suo cuore, rasentandolo, bensì si trovava proprio dritto nel pieno di esso, si accorse subito. Il suo fisico era ormai quasi inerte per la ferita e la perdita di sangue, tanto che praticamente non sentiva nessun dolore fisico, ma per un secondo la sua coscienza fu sveglia e attiva, ed allora capì tutto. Era stato l’ennesimo scherzo del destino, l’ennesima speranza delusa, l’ultima illusione svanita di una vita fatta solo di menzogne: sarebbe potuto scomparire senza quasi accorgersene, senza mai scoprire l’inganno di ciò che aveva concepito la sua immaginazione, ed invece moriva come era vissuto, in mezzo al dolore e alla totale desolazione, in mezzo ad un deserto romantico arido e senza speranza di vita. Eppure, con le ultime energie, D. trovò la forza di sorridere: nonostante quell’ennesima, ultima cocente beffa del fato, finalmente la sua anima così devastata e ormai totalmente consumata dal fuoco malefico dello struggimento stava per terminare di esistere. Sarebbe sparito anche quel vuoto infinito che lo pervadeva, e che ancor in quel momento lo tormentava con malvagità, e ciò lo rendeva felicissimo, di una gioia amara: finalmente avrebbe trovato la pace. Esalò l’ultimo respiro con il sorriso ancor immobile sulle labbra, e subito dopo la mezzanotte scoccò. I rintocchi funerei nella notte delle campane di una chiesa poco lontana ricoprirono le spoglie ormai prive di vita con una coperta nera ma accogliente: l’anima così tormentata che abitava quel corpo aveva finalmente cessato di esistere e di soffrire, e D. ora riposava, libero da ogni pena per la prima volta dopo tanto tempo. Così finiva la sua esistenza, com’era cominciata, in mezzo all’immondizia, che fosse reale o metaforica come quella che aveva dovuto subire lungo tutta la sua vita. Era la conclusione di una tragedia minuscola se paragonata alla grandezza dello spazio, ma lo stesso cosmica per un uomo non malfatto ma anzi veramente retto, in questo mondo, esso sì, davvero, profondamente sbagliato.
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