lunedì 3 gennaio 2011

1.000.000.000 A.D.

Per iniziare l'anno bene, ecco un nuovo racconto, che è il primo dei tre che sto scrivendo ad essere completato. Questo è ispirato a due miei sogni, ma uno in particolare, che ho ricalcato quasi fedelmente la trama di questo racconto, mentre l'altro ha ispirato solo la piccola parte della torre Eiffel. Come prevedibile, ne è venuto fuori un racconto abbastanza onirico, magari anche privo di un senso profondo, ma comunque piacevole da leggere. Spero sia di gradimento, comunque, anche se non lo reputo tra i miei racconti migliori. Ah, dimenticavo: il romanzo di cui parlo all'inizio è esattamente quello che sto scrivendo!

1.000.000.000 A.D.

Ero fierissimo, il giorno dell’imbarco. Il mio nome sarebbe risuonato per sempre nella storia, visto che tutto quello che era stato fatto, la maxi-operazione messa in piedi da tutti i governi mondiali insieme, era merito del romanzo che avevo scritto. Anche se ero solo uno scrittore, anche se non avevo contribuito alla missione con qualche scoperta scientifica, avevo comunque, in parte, sensibilizzato all’argomento del riscaldamento globale alcuni, e poi, man mano che il fenomeno letterario si propagava, molti altri, finché tutta l’umanità ne fu a conoscenza. Il riscaldamento del globo era, negli anni dopo l’uscita del mio libro, avvenuto sempre più velocemente, fino al punto che si pensava che il clima era fuori controllo, e che in pochi anni il pianeta sarebbe stato tanto caldo da risultare inabitabile. Così, si era deciso di trasferire, con un grandissimo gruppo di astronavi, tutta l’umanità da un’altra parte, lontani dalla Terra che era oramai un pianeta morente e agonizzante. Insieme alla mia fidanzata, e con orgoglio, salii sull’astronave a cui ero destinato, pensando quasi, per qualche motivo che sfuggiva anche a me, di dover fare da navigatore alla nave; del resto ero ferratissimo, comunque, in fisica, e avrei potuto comunque contribuire alla navigazione. Così non era, anche logicamente, perciò ci fecero sedere entrambi in due comodi posti passeggeri, all’interno di una cabina simile a quella di un treno, ma più spaziosa e pensata per entrambi. Era bello, l’interno della nave, comodissima, ma il vero spettacolo era sopra di noi, ben più in alto della fine delle pareti della cabina: una gigantesca cupola, di cui solo la metà inferiore, in quel momento, era ricoperte di variopinte luci che ruotavano e si spostavano al suo interno come luminarie natalizie, e dai colori più accesi, dal verde brillante al rosso fuoco, dal giallo incandescente al blu elettrico. Ad un tratto, il capitano apparve negli schermi delle cabine, ed annunciò a tutti gli occupanti di quella nave che si dovevano allacciare le cinture quando la cupola si illuminava per tre quarti, poiché il viaggio sarebbe cominciato quando tutta la cupola sarebbe stata completamente luminosa.

Passò qualche giorno, come se nulla fosse. Dormivamo e mangiavamo ai nostri ampi e comodi posti, nella cabina, ed eravamo liberi di girare per l’immensa astronave come volevamo, senza che la cupola si illuminasse più della metà. Non ci veniva detto nulla, ne della partenza ne della destinazione; ma c’era qualcosa di strano, era come se non ci fosse importato nulla, come se non avessimo l’umana fretta di chiarire la situazione. Del resto, non ci annoiavamo, io e lei, eravamo sempre insieme e stavamo benissimo, col nostro solito affetto. Il terzo giorno, però, finalmente le luci si accesero, sopra di noi. Ci legammo stretti ai nostri sedili, poi anche l’estremità superiore della cupola si illuminò, e venimmo sballottati per un momento, mentre la cupola irraggiava colori bellissimi, mai visti prima, e gli occhi ci si riempivano di meraviglia. Fu una questione di secondi, però: la metà delle luci che si erano accese si spensero rapide. La cupola allora si aprì mostrandoci lo spazio sopra di noi, nel quale un grande pianeta era sospeso, e centinaia di astronavi, simili a quella in cui ci trovavamo, fluttuavano immobili. Riconobbi le forme dei continenti, e vidi con mia grande sorpresa che eravamo ancora sulla Terra, eppure qualcosa mi sembrava strano. Di nuovo il capitano apparve nello schermo, e ci spiegò che avevamo viaggiato ottocento anni nel futuro, per far passare il riscaldamento globale e tornare sul pianeta raffreddato. Con le mie competenze, capivo benissimo quello che diceva: ad una velocità pari quasi a quella della luce, avevamo viaggiato per tutto quel tempo nel vuoto, e avevamo sfruttato la compressione del tempo relativistica, per far si che ottocento anni passassero in pochi secondi. Il capitano disse che nonostante gli otto secoli, il riscaldamento globale ancora era presente e rendeva ancora il pianeta inospitale; poi aggiunse che se comunque qualcuno voleva visitarla, per poterne ammirare i cambiamenti, avrebbe potuto farlo nella pausa che le navi sfruttavano per la prossima accelerazione a velocità quasi-luminale. Ne parlammo brevemente, io e la mia lei, e insieme decidemmo di scendere sul pianeta.

Caldissimo. Questo sentivo, mentre camminavo sulla superficie della Terra, ottocento anni dopo l’ultima volta. C’erano settanta gradi fuori, e nonostante la tuta ermetica refrigerata mi proteggesse, comunque si sentiva che all’esterno c’era una temperatura altissima. Poco male, comunque, sembrava una temperatura lieve se guardavo le pozze di metallo evidentemente fuso e poi ri-solidificato che erano sparse un po’ ovunque, e che davano l’idea del calore immenso che aveva afflitto il pianeta nei tempi passati. Cos’era successo in quegli ottocento anni? Non lo sapevo, ma doveva esser stato qualcosa di terribile. Camminavo per le strade di Parigi, e lo spettacolo era surreale: non un palazzo era rimasto in piedi, non una casa, tutte cadute per la mancanza di manutenzione, di quella bella e romantica città, che aveva visitato tanto tempo prima, non restavano che le pallide macerie. L’esperienza più impressionante fu la nostra visita sotto la Tour Eiffel. Una volta era alta solo trecento metri, me lo ricordavo bene perché ci ero già stato sopra; ora invece si era allungata moltissimo, ed era coricata su un lato, formando un gigantesco arco che si stagliava nel cielo, impressionante a vedersi. Fissavo quello spettacolo inebetito, quando ci fu ordinato perentoriamente di rientrare nella nave. Dopo la fine della passeggiata, venimmo a conoscenza della scoperta degli scienziati: sul pianeta c’era un microrganismo che alle temperature di sopravvivenza umana moriva di freddo, ma che con quelle alte temperature proliferava, e mangiava ogni cosa, dai tessuti umani fino ad, addirittura, la resistente tela di kevlar di cui le tute erano fatte. Non c’erano quindi le condizioni adatte per ritornare a Terra, e visto che oramai la ricarica era completata, ripartimmo per l’accelerazione a velocità quasi-luminale quel giorno stesso.

Stavolta il viaggio durò ben più dei pochi secondi che aveva necessitato la prima volta, e dopo un po’ capimmo che c’era qualcosa che non andava. Ad un certo punto comparve di nuovo il capitano nello schermo, visibilmente sudato e a disagio, e ci disse che il sistema di navigazione aveva funzionato male, portandoci completamente fuori rotta, e che non sapeva quando l’orbita perpetua, che comunque seguivamo ancora, ci avrebbe riportati vicini alla Terra, anche se era probabile, secondo i loro calcoli, che ci volesse una settimana, nel loro tempo interno. Continuammo a viaggiare per giorni e giorni, e quasi ci eravamo scoraggiati; poi finalmente la cupola si spense, e lentamente si aprì. Vedemmo allora un’intera superficie verde di quella che era, ovviamente, la Terra, già molto vicina, come se quasi fossimo già dentro l’atmosfera, all’altezza di crociera di un aereo. Arrivammo in pochissimo tempo a distinguere un albero dall’altro, nella foresta immane che si stendeva sotto di noi, poi il mondo oscillò totalmente, mentre urtavamo contro i tronchi e ci schiantavamo sulla superficie della Terra, strisciando poi per un lungo tratto. Fortunatamente nessuno si fece male, eravamo tutti con le cinture allacciate, ma lo schianto fu davvero uno shock enorme, per il nostro morale, e non solo. Per quanto fosse solida, tanto da salvarci la vita anche in quel tremendo impatto senza alcun freno, l’astronave fu praticamente distrutta, al punto di non poter più ripartire ne funzionare. Dovemmo così prendere quel poco che potevamo portare, e uscimmo all’esterno.

Ci ritrovammo nella foresta immensa ed impressionante che avevamo già visto dall’alto. Mi sentivo piccolo, lì, quegli alberi erano alti oltre trecento metri, mai visti di così grandi, ed i più larghi avevano tronchi di quaranta metri di diametro, e sembravano quasi giganteschi palazzi di legno. Davanti a noi, c’era una grande radura, ma l’erba era anch’essa altissima, ci arrivava al petto. La stavamo attraversando quando dalle cime degli alberi vedemmo un volatile simile a un passerotto alzarsi in volo da un ramo, su in alto, e volare nella nostra direzione; man mano che ci si avvicinava, però, ci accorgevamo che quell’uccellino diventava sempre più enorme, e quando atterrò poco lontano da noi, ci lasciò completamente sbigottiti. Era alto quanto un palazzo di cinque piani, e altrettanto largo! Doveva essere un effetto dell’evoluzione di tutto quel tempo passato giù sulla terra, ma in quel momento non importava affatto a nessuno, ne qualcuno era meravigliato positivamente: si pensava solo a scappare. Era una cosa ragionevole, visto che appena atterrato, l’enorme volatile aveva calato il becco sul comandante della nave, inghiottendolo in un sol colpo, e poi aveva inseguito altre due persone, che aveva voracemente divorato. Ci separammo dagli altri, io e la mia lei, e fuggimmo spaventati, correndo veloci, dentro la foresta. Nella foga di scappare via, però, non ci accorgemmo però dell’alta gola che si apriva davanti a noi, così ci finimmo dritti dentro. L’acqua sul fondo attutì la nostra caduta, e mentre l’ombra minacciosa passò sopra di noi, la corrente ci trasportò dove voleva.

Dopo circa un’ora, in cui viaggiammo sul fiume a bordo di un tronco che fortunosamente avevamo, arrivammo in una zona dove l’argine era abbastanza basso e pianeggiante da essere risalito. Ci inerpicammo su, in alto, e vedemmo un oggetto stranissimo, al centro della grande pianura a lato del corso d’acqua: una immensa cupola dalle costole esterne di acciaio, tra le quali si tendevano spessi strati di rete metallica, così fitta da non potervi guardare all’interno. Pieni di curiosità, ci avvicinammo, ed eravamo quasi arrivati quando dall’erba altissima spuntarono fuori delle creature stranissime. Ricordavano gli esseri umani, erano solo molto più alti, toccavano forse i tre metri, ed avevano una forma particolare, quasi ovale, senza collo, con la testa incassata nelle spalle. I loro vestiti erano dei corti gonnellini di paglia, che lasciavano scoperto il petto, e nella mano stringevano una lancia blu luminosa, che nel complesso dava loro un aspetto dai selvaggi: ma nei loro occhi brillava l’intelligenza, ed anche uno sbigottimento pari al nostro. Uno di loro si fece avanti, e parlandoci in un inglese dallo strano accento, ma sorprendentemente comprensibile, ci invitò a seguirlo.

Entrammo da una grande porta nella cupola di rete, e all’interno, con nostra grande meraviglia, potemmo ammirare una città meravigliosa, con i palazzi dalle forme più curiose; le strade, lì, erano pavimentate di acciaio, e vi passavano auto a levitazione magnetica come non ne avevamo mai viste. Mentre sbarravamo la bocca stupefatti, con molta gentilezza i giganti ci condussero su una di queste auto, sulla quale salimmo noi e l’uomo che ci aveva parlato, e che continuava a spiegarci alcune cose sulla città. Viaggiammo poi per una decina di minuti, fin quando non arrivammo a quello che doveva essere il municipio della città, un edificio cilindrico di un solo piano, molto largo, in cima ad una collinetta. Entrammo nel lussuoso edificio, e venimmo accolti da un altro gigante, che con quell’inglese particolare ci spiegò di essere il sindaco di quella città, Erebussia, e che erano capitati in una delle città più antiche della nuova Terra. Disse poi che ci aspettava, che sapeva che prima o poi saremmo arrivati. Loro erano i discendenti di quelli che, seicento milioni di anni prima, erano finalmente riusciti a ritornare a Terra, dopo oltre quattrocento milioni di anni di pellegrinaggio. Purtroppo il mondo, abitabile di nuovo, era popolato da giganteschi volatili carnivori, e quando succedeva che alcune specie si estinguevano, altre prendevano il loro posto, come se non ci fosse nulla che potesse sconfiggere quei mostruosi pennuti. Loro erano stati costretti a rinchiudersi in tante piccole cittadine, e anche se nel tempo si erano evoluti per essere più forti, non erano arrivati minimamente alla forza fisica degli uccelli; ne, d’altra parte, potevano sterminarli con la tecnologia che possedevano, visto che la loro cultura non ammetteva il non rispetto della natura. Comunque, i loro avi avevano lasciato a quel popolo un testo scritto, nel quale tra le tante cose c’era narrato che una nave sarebbe tornata dopo seicento milioni di anni, secondo i loro calcoli, con a bordo colui che, col suo romanzo, aveva consentito a tutti i loro antenati di sopravvivere (ossia io, con mio grande orgoglio), invece di morire cotti sul pianeta; i passeggeri della nave, e costui in particolare, si dovevano quindi aspettare e soccorrere, quando la nave sarebbe tornata a Terra, perché sapevano che alla fine sarebbe tornata, probabilmente schiantandosi. Per questo avevano conservando la nostra lingua; ed ecco perché ci trovavamo lì, sulla collina che un miliardo di anni prima era il monte Erebus antartico, in quel continente chiamato Antarica, dal clima tropicale ma che un miliardo di anni prima era un gigantesco vulcano dell’Antartide, in un futuro che era, in parte, anche merito mio.

Una volta concluso l’incontro col sindaco, venimmo scortati come dei personaggi importanti, con tutti gli onori, ad un hotel estremamente lussuoso, poco lontano da lì. Tutti i mobili erano altissimi, ma ci adattammo, comunque, come anche alle porzioni enormi del frigo-bar. Tutto sommato eravamo contenti: eravamo nel futuro, si, in un mondo che non conoscevamo, ma eravamo insieme, e la bellissima avventura ci aveva uniti ancor di più; inoltre, era tutto merito mio, e quasi venivo venerato, per l’importanza che per loro avevo, ero proprio entrato nella storia. Rimanemmo ad Erebussia, rispettati come uomini importanti e guardati con meraviglia, così, fino alla fine dei nostri giorni, felici di stare insieme anche se eravamo gli ultimi della nostra specie, anche lì, un miliardo di anni nel futuro.

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